La casa nell’Antica Roma (1/3)

Casa nell'Antica Roma, La casa nell’Antica Roma (1/3), Rome Guides

VIVERE A ROMA – LA CASA NELL’ANTICA ROMA

Un elemento importante per la ricostruzione del tessuto sociale di Roma antica è senz’altro lo studio dell’abitazione, il più delle volte rivelatrice dell’essenza stessa di una civiltà. I villaggi di capanne e le successive case fortificate riflettono, infatti, la struttura oligarchica del primo nucleo urbano. La domus di età repubblicana, nettamente isolata dall’esterno, indica la separazione politica e sociale delle classi elevate. La casa popolare a più piani (insula) evidenzia, a partire dal II secolo a.C., la progressiva tendenza all’urbanesimo da parte di enormi masse di persone che, però, preferiranno sempre trascorrere la propria vita all’aperto, fra strade e taverne, portici e terme.

Il quadro dell’edilizia privata di Roma antica si presenta, quindi, particolarmente complesso. Non esiste, infatti, un prototipo di casa romana, bensì una molteplice varietà di tipologie, legate a diversi momenti storici e a svariati fattori sociali, economici e tecnici.

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LE CONTRADDIZIONI ABITATIVE

Roma, che in età imperiale si presentava come una città seducente e piena di attrattive, era non di meno sede di contraddizioni e stridenti contrasti, che si evidenziavano soprattutto nell’architettura domestica, in cui coesistevano la miseria più sordida ed il lusso più smodato.

A partire dal II secolo a.C., infatti, ossia in seguito al mutamento dei costumi derivato dal contatto con il mondo greco, le grandi fortune accumulate da importanti personaggi dell’Antica Roma favorirono la corsa al lusso, trasformando ben presto la casa in uno strumento di affermazione sociale. Lo storico del V secolo d.C. Olimpiodoro scriveva: “Le ville permettevano di avere la campagna in città, e la loro ricca decorazione interna non era inferiore alla magnificenza ed alla grandiosità dell’architettura. Ciascuna delle grandi case di Roma conteneva tutto ciò che una città media poteva comprendere: un ippodromo, fori, templi, fontane e bagni di diversi tipi”. 

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Naturalmente, non tutte le abitazioni si presentavano con tali fattezze, ma solo quelle di pochi privilegiati. La maggioranza della popolazione di Roma viveva infatti in piccole domus e soprattutto nelle grandi insulae, più o meno decorose, ed in alcuni casi addirittura inadatte all’abitazione umana: si pensi, ad esempio, alle soffitte (tabulata), all’inizio occupate da schiavi e successivamente da persone comuni, alle cantine (fornices), in una delle quali abitava un poeta amico di Marziale, e persino ai sottoscala (subscalaria). 

È stato calcolato che nel IV secolo d.C. si contavano a Roma all’incirca 44.000 insulae e solo 1800 domus. Tra i quartieri più popolari c’erano l’Aventino, dopo che la Lex Icilia del 456 a.C. ne aveva concesso l’uso ai plebei, l’Esquilino, il Viminale e Trastevere, oltre ovviamente alla famigerata Suburra. Non c’erano però, nel senso più moderno del concetto, rigide divisioni territoriali: molte zone erano miste, e non era infrequente riscontrare accanto a dimore nobili e fastose l’incoerenza di costruzioni scomode e fragili, collegate tra loro da vicoli stretti e bui. Mecenate, ad esempio, creò i suoi famosi Horti nella parte più malfamata dell’Esquilino, mentre i ricchissimi Asinio Pollione e Lucio Licinio Sura scelsero per le loro residenze la collina plebea dell’Aventino.

Oltre alle evidenti differenziazioni residenziali, era anche la grande abbondanza di botteghe a caratterizzare l’edilizia romana, fornendo il quadro di una città simile ad un unico, immenso bazar, il cui aspetto era accentuato dalla presenza di numerosi venditori ambulanti che si mescolavano tra la folla alla ricerca dei possibili acquirenti. Adibite sia al commercio che all’artigianato, le botteghe trovavano spazio tanto nelle abitazioni di carattere proletario quanto in quelle dei cittadini più abbienti (sono state trovate piccole botteghe dislocate anche intorno all’atrio delle domus). 

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CAOS E DISORDINE

Questa brevissima prefazione fa capire chiaramente come l’Antica Roma fosse splendida entro la sua cornice monumentale, ma anche disordinata, caotica e tentacolare come una vera metropoli del mondo antico, con abitazioni prive di numeri civici tanto da obbligare a ricorrere a punti di riferimento come statue, templi e insegne di botteghe.  

All’epoca del poeta Marziale (I secolo d.C.), la popolazione arrivava a circa un milione di abitanti, con esclusione degli schiavi e dell’enorme massa variopinta e cosmopolita degli immigrati di ogni sorta e colore, minuziosamente descritti dal poeta stesso: il contadino della Tracia, il sarmata “che si nutre col sangue dei suoi cavalli”, i Cilici “che si aspergono di zafferano”, gli Arabi e i neri Etiopi, solo per citarne alcuni.

Tutta questa gente si addensava all’interno delle mura in un assurdo disordine, caratterizzato da una disposizione urbana movimentata e accentuato da una rete stradale estremamente carente; gli abitanti della Capitale si affollavano nel poco spazio lasciato libero dai palazzi imperiali, dai mercati, dai giardini e dagli innumerevoli edifici pubblici, riuscendo ad occupare appena un terzo dell’intera area urbana, costretti a concentrarsi quindi al suo interno sia per la difficoltà delle comunicazioni, che per l’alto costo del suolo fabbricabile. 

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Lo Stato saltuariamente interveniva nel difficile campo della regolamentazione edilizia, spesso però con scarsi risultati. Lo stesso Augusto, che si vantava di aver ricevuto una città di mattoni e di averla lasciata di marmo, non riuscì a risolvere la situazione generale di sovrappopolamento, insalubrità e congestione dei quartieri popolari.

Paradossalmente, il merito di aver posto un freno a questo catastrofico stato di cose e di aver rinnovato in parte l’aspetto della città va dato a Nerone. Il terribile incendio del 64 d.C., che distrusse ben tre regioni augustee ed altrettante ne danneggiò in modo grave, consentì l’attuazione di una serie di fondamentali norme programmatiche: le costruzioni improvvisate o irregolari vennero vietate, le proprietà private ebbero l’obbligo di rispettare in altezza la doppia larghezza della strada, fu impedita la costruzione di soffitti di legno e resa obbligatoria la regola di isolare gli edifici gli uni dagli altri. 

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Incendi e crolli, d’altronde, erano fra le calamità più comuni. C’era però un altro inconveniente, certamente meno deleterio ma non meno stressante: il rumore, che era costantemente presente, sia di giorno che di notte, quando cioè era consentita la libera circolazione dei carri lungo le strade cittadine finalmente sgombre. Secondo Marziale “il povero non ha un luogo per pensare o per dormire in pace a Roma. La mattina non ti lasciano vivere i maestri di scuola, di notte i fornai e a tutte le ore del giorno i calderai che battono con i loro martelli. Qua c’è un cambiavalute che non avendo altro da fare rivolta un mucchio di monete sul suo sudicio tavolo, là un operaio che batte col lucido mazzuolo il sasso del minerale aurifero della Spagna già ridotto in pezzi, né cessa di vociare la fanatica turba degli iniziati al culto di Bellona. E chi dirà quante mani battono in città su recipienti di rame quando, durante un’eclissi di luna, si fanno sortilegi e pratiche di magia?”. Praticamente, a detta di Marziale, solo nelle domus nobiliari si poteva riposare in tranquillità.

LE CAPANNE ROMULEE

La prima forma di abitazione umana, quando gli uomini cominciarono ad abbandonare le caverne, fu la capanna a pianta circolare, che troviamo diffusa in tutta l’Europa preistorica, Italia compresa. Non essendo rimasto nulla di queste primitive abitazioni, la loro conoscenza si basa sulle tombe o sulle urne cinerarie che, per l’idea propria dei popoli antichi di dare al sepolcro l’aspetto di una dimora, ce ne riproducono fedelmente la forma. 

Un esempio diretto di capanna laziale dell’VIII secolo a.C. è offerto dai resti rinvenuti su un’altura del Palatino: il pavimento, la cui pianta è quasi rettangolare, è caratterizzato da numerosi fori, nei quali erano infissi i pali che sorreggevano il tetto, rinforzato al centro da una grossa trave. Siamo negli anni in cui la tradizione annalistica pone la fondazione di Roma: le case dei primi abitanti della città presentavano un alzato in paglia e vimini, dotato probabilmente di una finestra laterale e di un piccolo portico antistante. 

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LA PRIME CASE ITALICHE

Come per molti altri aspetti della civiltà romana, anche le origini della vera e propria abitazione pare si debbano ricercare nell’ambiente etrusco o quanto meno mediterraneo. Lo schema primitivo della casa italica, con una grande stanza (tablino) ed un cortile antistante coperto (atrio), risale con molta probabilità agli Etruschi, pur avendo molte affinità con il tipo di casa egea. 

Un’idea chiara del primitivo schema della casa italica è data in piccolo da un’urna di Chiusi ed un po’ più in grande dalla Tomba delle Sedie a Cerveteri, che ci offre la forma arcaica di una casa ad atrio. L’urna di Chiusi non riproduce più (come le urne precedenti) una capanna, bensì una solida casa in muratura, con il tetto sporgente caratterizzato da filari di tegole e l’apertura rettangolare in una tettoia speciale al centro dell’atrio (compluvium). Nella tomba delle Sedie si nota invece l’atrio e, antistante ad esso, il tablino, che per dimensioni risulta la stanza principale della casa: gli sgabelli che si trovano ai lati della porta facevano evidentemente parte del suo arredamento.

LA CASA DEL CHIRURGO A POMPEI

La pianta della primitiva casa etrusco-romana si può ricavare anche dalla Casa del Chirurgo a Pompei, che rappresenta uno degli esemplari più antichi di abitazione.

Essa si compone di un ingresso seguito da un vestibolo (fauces), attraverso il quale si giunge nel cortile centrale (atrium) fornito di impluvium, il bacino per raccogliere l’acqua piovana. L’atrio presenta lungo i lati paralleli all’entrata dei vani (cubicula) e, sul terzo lato di fronte all’ingresso, il tablinum (ambiente dove si consumavano i pasti), nei cui pressi si dispongono due ambienti minori (alae). Dal tablino si passa quindi, tramite un corridoio, nell’hortus, ossia il giardino della casa. Questo schema-tipo ovviamente subi delle varianti, ma risulta comunque essere proprio dell’abitazione tipica degli Etruschi, dei Romani e dei Campani almeno fino a tutto il III secolo a.C. 

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LE DOMUS SUCCESSIVE

Da questo modello si passa già nel II secolo a.C. alla casa di tipo greco-romano, risultante dall’unione di due abitazioni, la greca e la romana appunto, con la quale si ottennero dimore più vaste e signorili. Uno degli esempi più caratteristici di questa tipologia ci è offerto sempre a Pompei dalla Casa di Pansa, in cui lo schema romano tradizionale resta inalterato, ma che mostra maggiore estensione e potenzialità d’uso. 

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Questa casa viene detta “a peristilio”, in quanto caratterizzata proprio da questo ambiente, che altro non è se non un ampio giardino circondato da un portico colonnato, spesso arricchito da fontane e opere d’arte, completato da tutta una serie di ambienti tra i quali spiccano sul fondo tre ampie sale che ripetono in proporzioni maggiori la tipica disposizione del tablino e delle ali dell’atrio. 

Il centro della vita domestica venne quindi spostato dall’atrio al peristilio, rimanendo il primo unicamente zona di rappresentanza. Questo tipo di abitazione, conseguente all’ondata di benessere per le conquiste orientali, raggiunse il suo apice durante gli ultimi decenni della Repubblica, presentando a volte doppi peristili, bagni, biblioteche, criptoportici e triclini.

Tra coloro che scelsero di risiedere in simili lussuose residenze si ricordano le case d’età repubblicana di nuovo genere sono ricordate particolarmente quelle di Cicerone, Clodio e Crasso. La vecchia casa ad atrio, a poco a poco, lasciò il posto a queste nuove e ricche abitazioni, tanto che Plinio il Giovane, parlando dell’atrio, lo considerava “ex more veterum”, ossia “secondo l’uso degli antichi”.

LA STRUTTURA DELLA DOMUS (STANZA PER STANZA)

Una legge municipale dell’età di Cesare intimava ai proprietari di edifici che costeggiassero le pubbliche vie di far pulizia davanti ai muri ed alle porte, pena pesanti contravvenzioni da parte dell’edile di zona. Spesso, però, l’ingresso delle abitazioni non si trovava direttamente sulla strada, bensì a metà del lungo corridoio che dall’esterno conduceva all’atrio: la parte esterna di questo ambiente era chiamata vestibulum, quella interna fauces.

Lungo il vestibolo, nelle case più ricche, potevano trovarsi statue e portici, nonché posti a sedere per i vari clientes, i protetti del padrone di casa, che lì sostavano in attesa di essere ricevuti. Ad uno schiavo portinaio, che aveva la sua piccola stanzetta nei pressi, spettava il compito di custodire l’ingresso. 

Oltre all’entrata principale ne esisteva una di servizio (posticum), che si apriva lungo uno dei muri laterali e dava di solito su di un vicolo. Si trattava dell’accesso di schiavi e garzoni, ma ovviamente esso poteva essere adoperato anche dal padrone di casa quando non voleva essere importunato da qualche seccatore. 

L’ATRIO

Come accennato, il vestibolo proseguiva con le fauces, che immettevano direttamente nell’atrio, un ampio cortile che, come detto, in età più antica costituiva il cuore stesso della casa. Nell’atrio era infatti collocato il focolare domestico, ed in questo ambiente il paterfamilias amministrava i suoi poteri. 

Con lo svilupparsi della casa, la vita familiare si spostò, come già accennato, verso gli ambienti più interni, fra i quali il peristilio, provocando uno scadimento dell’atrio. Esso rimase, quindi, una sorta di anticamera grandiosa di cui solo la tavola di marmo (cartibulum) e la cappella per le divinità protettrici della famiglia (lararium) ricordavano l’antica destinazione. 

Al centro si trovava un’ampia vasca (impluvium), destinata alla raccolta dell’acqua piovana che proveniva da un’apposita apertura lasciata sul tetto. Esso era collegato, tramite alcuni orifizi di scolo, ad una cisterna, che per secoli costituì l’unica fonte di approvvigionamento idrico della casa romana. Nei pressi si trovava un pozzo, da cui l’acqua poteva essere attinta. Col passare del tempo e con l’introduzione degli acquedotti, l’impluvium perse il suo scopo pratico e divenne un ulteriore elemento decorativo della casa, spesso abbellito da una o più fontane. 

Sappiamo da Vitruvio che, a seconda del sistema di copertura, l’atrio poteva essere costruito e denominato in modi differenti: il più comune, inizialmente, fu il cosiddetto atrio tuscanico (senza colonne e con le falde del tetto convergenti verso l’interno), ma a causa del costo di realizzazione delle travature e della scarsa luminosità esso venne progressivamente sostituito  dal cosiddetto atrio corinzio, un cortile porticato molto simile all’attiguo peristilio. 

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ATTORNO ALL’ATRIO

Il tablino era probabilmente l’ambiente della casa originariamente destinato alla consumazione dei pasti. Di dimensioni piuttosto ampie, si affacciava lungo il lato dell’atrio opposto all’ingresso. Il tablino non aveva una porta, bensì una tenda che, sollevandosi fino a metà altezza, ne impediva la visione interna. Una seconda apertura immetteva, invece, nel peristilio.

Intorno all’atrio si disponeva tutta una serie di altri ambienti, fra i quali ricordiamo le alae, prossime al tablino, destinate ai più svariati usi secondo la signorilità della casa; probabilmente, in epoca repubblicana, esse servivano a far entrare aria e luce e a permettere una comunicazione con l’esterno della domus. 

Lungo l’atrio, in direzione dell’ingresso, si allineavano anche i cubicula, ossia le stanze destinate al riposo notturno. Le camere da letto non avevano nella domus una collocazione precisa, ma si riconoscono facilmente in quanto il soffitto, soprattutto in corrispondenza del letto, è ribassato e crea quasi una sorte di nicchia. Talvolta davanti alla camera da letto si nota una specie di anticamera, nella quale dormiva il servo di fiducia. 

IL PERISTILIO

Attraverso un corridoio si passava al peristilio, un ambiente di origine ellenistica che caratterizzò il nuovo impianto della casa romana e determinò lo spostamento della vita familiare ancor più verso l’interno dell’abitazione

Esso consisteva in un giardino che, come suggerisce la parola stessa, era circondato su ogni lato da un portico, generalmente a due piani, sostenuto da colonne. A questo schema tipico, naturalmente, potevano aggiungersi adattamenti o modifiche, suggeriti dallo spazio a disposizione o dal gusto personale del padrone di casa. 

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Il giardino, chiuso alla vista esterna, accoglieva opere d’arte, statue, rilievi e ornamenti marmorei, dei quali taluni a forma di dischi (oscilla) pendevano anche tra le colonne del portico. Erme, busti e pannelli scolpiti rappresentavano di solito maschere teatrali, satiri, sileni o amorini e trovavano la loro collocazione anche nell’area centrale, spesso occupata da un viridarium, un piccolo spazio verde che spaziava da una coppia di rampicanti per le case più modeste ad un vero e proprio piccolo orto botanico nelle domus più lussuose.

Il contorno delle aiuole era delimitato da basse spalliere di mirto, rosmarino, timo e pungitopo, mentre l’acanto trovava la sua collocazione lungo le fontane ed i ninfei. Rose, viole, gigli, garofani, papaveri, narcisi e margherite, oltre ad una gran varietà di alberi e piante da frutto, accrescevano l’amenità del luogo. I giardinieri romani erano tra l’altro specialisti nel dare alle piante sempreverdi l’aspetto di divinità, animali o forme geometriche, secondo una tecnica particolare (ars topiaria), inventata in età augustea dal cavaliere romano Caio Mezio.

IL TRICLINIO

La più conosciuta, fra le sale disposte nei pressi del peristilio, è senza alcun dubbio il triclinio, utilizzata esclusivamente come sala da pranzo ed inserita nella struttura architettonica della domus quando fu introdotta a Roma la consuetudine di mangiare sdraiati.

Nei tempi arcaici, infatti, i pasti si consumavano nel tablinum o in un altro apposito locale chiamato significativamente cenaculum: all’epoca, solo il capo famiglia pranzava sdraiato, mentre la sposa sedeva ai piedi del letto ed i figli su sedie e sgabelli, servendo spesso i genitori a tavola, come raccontatoci da Varrone. Le donne furono autorizzate a consumare i pasti sdraiate come gli uomini solo molto più tardi.

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Le differenze fra i sessi, durante i pasti, non si riflettevano solo sui posizionamenti, ma anche sul cosa e sul quanto bere. Ovidio ammoniva infatti le donne di non bere troppo: “Se gli uomini possono assopirsi sul loro triclinio, il pericolo che una donna corre è grande. Essa non può abbandonarsi al sonno senza esporsi a rischi, perché il sonno permette ordinariamente molte cose che offendono il pudore”

I triclini delle domus romane, di cui gli esemplari di Pompei riflettono solo un pallido ricordo, erano in grado di ospitare una moltitudine di commensali. Talvolta essi erano addirittura all’aperto, per poter godere nella stagione calda della frescura portata da fontanelle e giochi d’acqua.

LA CUCINA

Varrone raccomandava che la cucina fosse sempre a portata di mano, onde provvedere con comodità a tutto ciò che era necessario, anche nella brutta stagione. In realtà, questo ambiente non ebbe mai una collocazione precisa nell’economia degli spazi domestici e neppure la dignità di una vera stanza, servendo esclusivamente alla preparazione dei cibi. È possibile pertanto trovare cucine nei sottoscala o in un angolo dell’atrio, caratterizzate da tettoie protettive per la pioggia e da pavimenti in terra battuta.

Il focolare era posto generalmente in un angolo: era costituito da un podio in muratura, che presentava sul fronte una nicchia circolare atta a contenere la riserva di legna, e da una parte superiore leggermente incavata, che formava il vero e proprio piano di cottura, coperto di brace e cenere con treppiedi in metallo come fornelli. Tutt’attorno, pentole e casseruole facevano bella mostra di sé.

Nel pressi era collocato anche il forno per la cottura del pane, dei dolci e degli arrosti. Nelle case più ricche, accanto alla cucina poteva trovarsi anche un mulino per la macina del grano. 

A lato del focolare c’era il lavandino per rigovernare gli utensili adoperati in cucina: esso era foderato di cocciopesto e presentava un tubo di scarico che si ricongiungeva a quello uscente dall’attigua latrina, per l’eliminazione dell’acqua sporca verso la fogna.

La cucina era infatti quasi sempre vicina alla latrina, onde poter usufruire del medesimo condotto idrico, e ad una cisterna che serviva alla raccolta dell’acqua proveniente dal tetto.

L’unico inconveniente nella cucina delle domus romane era quello dello smaltimento del fumo. Se nelle cucine allo scoperto la questione ovviamente non si poneva, in quelle coperte, si provvedeva di solito con un semplice foro praticato in una parete; a volte però questo sistema si rivelava imperfetto ed il fumo invadeva l’intera casa e talvolta persino le vie adiacenti.

IL BAGNO

La stanza da bagno, nell’età più antica, si limitava ad un piccolo ambiente, dal nome significativo di latrina. Famoso, a questo proposito, è l’esempio che Seneca dà sulle austere abitudini relative “al buon tempo antico” di Publio Cornelio Scipione l’Africano. Questo illustre condottiero nella sua villa di Liternum, presso Capua, aveva un balneolum, ossia un piccolo bagno stretto e buio, con una sola finestrella simile ad una feritoia. Dopo il lavoro dei campi, egli si risciacquava usando acqua non filtrata, spesso molto torbida; ogni giorno si lavava le gambe e le braccia, e solo ogni nove giorni faceva un bagno completo.

Verso la metà del III secolo a.C., quando si diffuse la consuetudine del bagno caldo, si iniziò a costruire nelle case un’apposita stanza, denominata balneum, che inizialmente non era né grande né particolarmente lussuosa: l’arredamento si limitava ad una vasca per l’acqua calda e ad un catino.

Successivamente, l’impianto divenne sempre più sofisticato, riproducendo in piccolo quello delle terme. Si ebbero, così, uno spogliatoio (apodyterium), costituito da una stanza a pianta quadrata completa di sedili per deporre le vesti; il bagno freddo (frigidarium), a volte sostituito da una piscina nel giardino; il bagno tiepido (tepidarium), locale a pianta rettangolare fornito di piccole finestre chiuse da vetri, che serviva per non far subire al corpo sbalzi troppo bruschi di temperatura; infine il bagno caldo (calidarium), di forma absidata con vasca e sedili di marmo lungo le pareti. 

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