LO SPORT NELL’ARTE
Quando ormai l’epica vicenda della guerra troiana e l’avventuroso ritorno di Ulisse avevano trovato vita immortale nei poemi, già da qualche secolo terriccio e vegetazione andavano ricoprendo le rovine del Palazzo di Cnosso, a mezza costa sulle verdi pendici della valle che digrada verso il mare settentrionale di Creta. Identica sorte toccava al Palazzo di Festos, alto sulla polverosa e gialla pianura di Messara, arida seppur solcata dal silenzioso Ieropotamo, seminascosto fra i canneti. Similmente, scompariva anche il terzo palazzo (nel luogo che poi prenderà il nome da una vicina chiesetta cristiana, Haghia Triada, Santa Trinità) in vista del golfo a sud dell’Isola, che oggi è tutto un argenteo verdeggiare di ulivi trascolorante nel cupo azzurro marino. Dominava su tutto la solenne solitudine del monte Ida, divina verso il cielo.
A Micene, nel cuore del Peloponneso, gli abitanti della città ormai decaduta guardavano l’alta rocciosa Acropoli e le mura ciclopiche, segno di una potenza ormai estintasi. Passeranno altri cinque secoli e gli ultimi eredi degli Atridi, vinti da Argo nel 468 a.C., abbandoneranno per sempre il luogo natio. Da quel momento, soltanto le capre di qualche raro pastore brucheranno l’erba nata sulle tombe degli eroi dalla maschera d’oro, mentre i leoni rampanti sulla indifesa porta di pietra altro non saranno che simboli muti di una civiltà trascolorata nel mito.
La civiltà di Creta, espressione di genti non elleniche di misteriose origini, si estinse al termine del secondo millennio a.C., mentre quella di Micene durò poco più oltre. Non fu però un naufragio totale, poichè ebbe il sigillo stupendo dei poemi di Omero che ne ritrasse gli aspetti, in parte confermati dai mirabili ritrovamenti della moderna archeologia.
Come sarà poi (ancor di più) nella civiltà ellenica, anche il costume dell’età minoica diede grande importanza agli aspetti più vivi e concreti della vita reale. Terre montuose, interrotte da profonde vallate, raramente ammorbidite in zone di pianura frastagliate contro le onde marine, diedero vita a popoli ruvidi e vigorosi, che nella forza delle membra dovettero vedere una insopprimibile ragione di sopravvivenza e nella bellezza dei corpi una ragione di continuità.
Le donne cretesi, dalla breve cintura e dal prosperoso petto ignudo, e gli uomini, anch’essi dalla breve cintura e dal torace ampio e forte, come ci sono stati tramandati dalla scultura e la pittura di quei secoli, suggeriscono l’immagine di una lieta vita fondata sull’amore e sulla forza.
Agli atleti, gareggianti nei poemi omerici, si offrivano in palio “…tripodi e vasi, e destrieri e giumenti, e generosi tauri, e forbite armature, nonchè fanciulle captive di gentil cintillio”, ossia prigioniere dalla bella cintura.
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LO SPORT NELL’ILIADE E NELL’ODISSEA
Il Canto XXIII dell’Iliade, che narra i funerali di Patroclo, è ad esempio in buona parte dedicato ai giuochi sportivi indetti da Achille in onore dell’amico caduto. Si inizia con la corsa dei cocchi, a cui furono “animosi e pronti a presentarsi gli aurighi” Fumelo, Diomede, Menelao, Antiloco e Merione. Nonostante i sapienti consigli che il vecchio Nestore ha donato al figlio Antiloco, da condensarsi in un vero e proprio trattato di guida sportiva, con l’accelerata in curva del cavallo esterno a briglia sciolta mentre quello interno va guidato a radere la meta, questi soltanto sfiora la vittoria, che però tocca a Diomede:
“…a furia ecco il Tidide
avanzarsi, e le groppe senza posa
tempestar dei cavalli, che sublimi
divorano la via. Schizzi di polve
incessanti percuotono l’auriga.
D’or raggiante e di stagno, si rivolve
dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio
che appena vedi della ruota il solco
nella sabbia sottil”.
Segue la gara di pugilato tra Epeo ed Eurialo che finisce a terra in un rovinoso crollo, degno di un moderno K.O. conseguente ad un tremendo gancio montante.
Poi viene la lotta fra Aiace e Ulisse, che termina con un pareggio, seguita dalla corsa a piedi ed infine dal duello, con tre assalti alla spada. Segue il lancio del disco, in cui il muscoloso Epeo, fortissimo ma non scattante, raccoglie soltanto risa, mentre Aiace “con man robusta ogni segno passò”; la vittoria però non gli arride, poiché Polipete fa volare il disco addirittura fuori del circo, tra la gioiosa meraviglia degli spettatori.
I giochi proseguono con la gara di tiro con l’arco e si concludono col lancio dell’asta, che però non viene neppure effettuato poiché, tra i contendenti si presenta Agamennone, atleta tanto abile e riconosciuto in questa specialità che il premio gli viene concesso senza nemmeno dover effettuare la prova, per decisione inappellabile del giudice di gara Achille.
Dell’ardore sportivo di un altro popolo simile a quello cretese, Omero ci tramanda il ricordo anche nel libro VIII dell’Odissea, trattando dei Feaci, abili corridori sulla terra e sul mare: “Ché noi pugili insigni non siamo, né saldi alla pugna, ma sì veloci al corso dei piedi e di navi maestri”.
Anche alla corte di Alcinoo, d’altronde, si svolgono giochi atletici: la corsa, il salto, il lancio del disco e il pugilato.
LO SPORT NELL’ARTE PREELLENICA
Le testimonianze figurative della passione sportiva delle civiltà pre-elleniche non sono numerosissime ma, in compenso, sono di grande interesse.
Famosa è la Tauromachia di Cnosso, giuoco veramente straordinario consistente nel salto, con la capovolta, sul dorso di un toro lanciato a corsa sfrenata verso l’atleta. Per tale esercizio erano necessarie ai ginnasti doti notevoli di equilibrio e di forza sulle braccia, ma non sempre, per uno scarto dell’animale o per una indecisione dell’atleta, l’esercizio giungeva a buon fine: nel rhyton di steatite di Haghia Triada è raffigurato il drammatico istante in cui l’uomo finisce tra le corna del toro.
Sempre i tori sono i protagonisti delle meravigliose Tazze d’oro di Vafiò, conservate ad Atene nel Museo Nazionale), ornate con sbalzi raffiguranti la cattura e l’addomesticamento dei tori selvaggi.
Dalla tauromachia alla caccia il passo è assai breve, e proprio questo argomento compare nelle ageminature della lama di un pugnale di bronzo, proveniente da Micene e conservato anch’esso nel Museo Nazionale di Atene. La caccia, movimentatissima, è svolta da uomini a piedi, armati di lance e protetti da larghi scudi.
Altre opere d’arte ci riportano a temi sportivi, come ad esempio la lotta, che non solo appare nel già citato rhyton di steatite di Haghia Triada, ma che torna anche in molte rappresentazioni minori, come esercizio fisico ed al contempo addestramento militare.
I GRECI
Mentre i cicli delle civiltà minoica, cretese ed elladica volgevano al termine, il moto incessante della storia portava sulla cresta dell’onda popoli nuovi.
Circa quattro secoli dura il cosiddetto “Medioevo Ellenico”: è un periodo oscuro, sordo a quell’arte che aveva saputo esprimere monumentali palazzi mirabili affreschi, raffinate ceramiche, oreficerie ed ageminature. Tuttavia una tradizione estetica persiste, e si caratterizza da quello “stile geometrico”, che si concluderà con la fase “orientalizzante”, come si può vedere nella corposa decorazione vascolare: si tratta di uno stile che, seppur non privo di un certo appeal, sarà ben poca cosa rispetto alla gloria del passato ed agli splendori artistici del futuro.
Nel frattempo avviene il passaggio dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro, metallo già nominato da Omero il quale, però, riflettendo una civiltà ben più antica, arma i suoi eroi di corazze e spade fatte soltanto di bronzo.
Dobbiamo arrivare al VI secolo per incontrare, ormai definito nelle forme atletiche, il tipo di kouros dalla muscolatura potente, pur espressa, in certe parti del corpo, con singolari manierismi non lontani dalla plastica egiziana, che agisce sulla nuova scultura continentale attraverso la scultura detta “Dedalica” dal cretese Dedalo, considerato il caposcuola degli artisti dal 600 al 550 a.C.
Sarà un grande artista di Argo, Polimede, nelle poderose e massicce figure degli atleti Cleofi e Biton, a stabilire il prototipo del Kouros, o Apollo dorico. Col procedere del secolo gli scultori continuano nel perseguire il mito di quella forma ideale, simbolo dello spirito greco, che sarà considerata perfetta nelle opere meravigliose del V secolo.
LE OLIMPIADI
L’arcaismo si svolge in moti sempre più sciolti, ed il nudo atletico è determinante in questa ricerca. Nella rappresentazione della muscolatura, soprattutto in tensione, le ricerche sull’anatomia portano i loro frutti. D’altronde, per ben 292 volte, nel corso di oltre undici secoli, il sacro recinto di Olimpia accolse le Olimpiadi del mondo greco, la più tenace e poetica manifestazione sportiva che mai la storia abbia veduto, in grado di fermare le guerre con una tregua temporanea che poneva pacificamente accanto mortali nemici, nel venerato recinto religioso-sportivo.
Iniziate probabilmente nel 776 a. C., le Olimpiadi ebbero brillantissima vita fino al 393 d.C., quando il cristiano imperatore Teodosio le proibì, proseguendo il suo progressivo smantellamento della civiltà pagana. Qualche decennio dopo, l’azzurro cielo sulla valle dell’Alfeo fu macchiato da nere nuvole di fumo: Teodosio Il aggrava ancor più l’opera del suo omonimo predecessore, incenerendo col fuoco i templi di Olimpia e, con essi, una parte ancora viva di un millennio di civiltà, mentre le mazze spezzavano statue, fregi e colonne.
Dovranno trascorrere quindici secoli prima che il meraviglioso rito ellenico abbia nuova vita nelle Olimpiadi moderne del 1896.
LE OLIMPIADI NELLE ARTI
Oltre ai luminosi riflessi nel campo letterario (si pensi ai carmi di Bacchilide, di Pindaro o di Simonide, celebranti gli atleti vincitori), le Olimpiadi diedero importantissimi frutti anche nell’arte figurativa. Si pensi agli edifici architettonici scavati o identificati, come il Pritaneo (dove si tenevano i banchetti in onore dei vincitori), il Buleuterio (una sorta di ufficio per la direzione dei giochi), il Leonidaion (l’ala per i magistrati), la Palestra, il Ginnasio per l’atletica leggera, l’Esedra, le Terme, lo Stadio, l’Ippodromo.
L’ossatura architettonica degli impianti sportivi di Olimpia era favolosamente ricca di opere di scultura, di oreficeria e certamente anche di pittura. Su tali resti domina oggi, fra gli altri capolavori, un gioiello scultoreo dovuto allo scalpello di un genio: il frontone orientale del tempio di Zeus, databile con probabilità fra il 480 e 460. Esso raffigura il patto fra Pelope ed Oinomao, mitico prototipo delle Olimpiadi. Si prepara una gara di corsa che per Pelope ha due sole poste possibili: la conquista della figlia di Oinomao, Ippodamia, sposa agognata, o la morte. L’attimo di tensione terribile che precede la gara delle due quadrighe è interpretato con potenza inaudita.
Le grandi sculture di Olimpia sono il capolavoro di uno stile detto “severo”, ormai fuori dell’arcaismo e simbolico di un improvviso mutamento, contemporaneo di avvenimenti politici e militari fondamentali per la storia futura. Negli anni in cui operano gli scultori dello stile severo, avvengono infatti le epiche lotte fra Greci e Persiani: il cuore dell’occidente civile compie strenui sforzi per mantenere la sua vitalità di fronte all’assalto di un mondo diverso, di una civiltà barbarica che concepisce la vita soltanto come un rapporto fra autocrati e schiavi.
All’occidente toccò la vittoria, anche se per la Grecia questa vittoria conteneva il seme di disastri futuri che avranno il nome di guerra peloponnesiaca, di intesa spartano-persiana, di pace di Antalcida, finché all’orizzonte non apparirà Filippo II di Macedonia. Tutti questi avvenimenti non infiacchirono lo spirito dei Greci, che anzi restò sempre straordinariamente vivo, con l’agonismo politico e guerriero che continuò ad avere riflessi anche sullo stile di vita: per i Greci, l’armonia delle membra continuò ad esse fondamentale per il raggiungimento della perfezione umana.
LO STILE SEVERO
A grandi passi gli scultori si avviano a creare la creatura ideale, traendola viva dal bronzo e dal marmo. Se l’afflato spirituale delle loro opere è un misterioso riflesso della vita politica e culturale che essi vivono, la forma reale delle loro opere è conseguenza dell’osservazione del fisico degli atleti che essi vedono gareggiare nelle palestre e negli stadi.
Da un lato, l’artista si andava sempre più impadronendo della materia e delle possibilità di essa; dall’altro, inizia ad affermarsi una nuova concezione volumetrica, legata ad un diverso rapporto tra forma e spazio, che conduce all’abbandono della frontalità per la tridimensionalità.
Lo stile dei grandissimi artisti che operarono nei frontoni dei templi di Egina e di Olimpia trova precedenti e larghi riflessi in ogni attività artistica anche minore, come si può notare in parecchi pittori vascolari oppure negli autori di piccole sculture, vivaci figure di atleti in atto di scagliare il giavellotto o il disco.
È probabilmente a Egina, nei frontoni raffiguranti il Combattimento tra Eracle Telamone e Laomedonte e la Lotta fra Atace e Telamonio contro Enea e Paride (episodi delle guerre troiane), che l’arcaismo maturo ha creato la sua opera migliore. Il capolavoro dello stile severo è però nei frontoni del tempio di Zeus ad Olimpia, di cui già si è accennato alla raffigurazione del tragico patto tra Pelope ed Oinomao. Ai protagonisti si affiancano Sterope e Ippodamia e gli aurighi inginocchiati dinnanzi ai cavalli già attaccati alle quadrighe. Domina in centro la maestosa e solenne figura di Zeus.
Nel frontone occidentale è una frenetica scena di lotta fra Lapiti e Centauri, sulla cui energia scatenata in un groviglio di muscoli e di forme atletiche si stende, calmo e solenne, il gesto pacificatore di Apollo, figura di atleta divino, conscio della propria invincibile forza.
L’AURIGA DI DELFI E I TIRANNICIDI
Accanto a questi capolavori sono da porre altre due sculture egualmente elevatissime dal punto di vista artistico: l’Auriga di Delfi ed il gruppo bronzeo dei Tirannicidi Armodio ed Aristogitone dei bronzisti Kritios e Nesiotes, sculture fondamentali per il decennio 480-470 a.C.
L’auriga ci è giunto nell’originale bronzeo, mentre i Tirannicidi ci sono noti attraverso una copia marmorea. Un accenno particolare merita la questione della scultura nel marmo e della scultura nel bronzo: parrebbe, a prima vista, una questione soltanto esteriore, di materia. Ma, in effetti, il metallo permette una più ampia liberazione di forme, poiché, a differenza del marmo, non ha bisogno di particolari sostegni che aumentino la resistenza di parti sottili relativamente al peso che debbono sostenere. Il bronzo consente quindi un metro più sciolto, generando una più libera circolazione spaziale attorno alle membra.
IL DISCOBOLO DI MIRONE
Considerati sotto il punto di vista del raggiungimento di una forma umana ideale, gli scultori greci del periodo aureo possono essere genericamente distinti in due correnti: quelli puramente atletici, che ricercano variamente la tridimensionalità, il movimento e l’armonia della muscolatura, e quelli che perseguono una più sottile umanizzazione in senso spirituale.
Mirone fu in grado di mescolare abilmente entrambe le categorie.
Di Mirone, attivo tra il 450 e il 440 a.C., numerose copie ci hanno tramandato il famoso Discobolo, che, nella comune cultura, è la sua opera più nota. Non si deve però trascurare il vivacissimo gruppo di Atena e Marsia, che dimostra come l’ispirazione dello scultore sia stata assai multiforme e duttile, capace di rappresentare soggetti molto diversi.
Il Discobolo è veramente un capolavoro, una delle opere di tutta l’arte figurativa che più hanno saputo cogliere un attimo di sosta, così breve da essere quasi inesistente, compreso tra il moto ascensionale del braccio che solleva il disco ed il susseguente scatto di lancio, moti che possono essere analiticamente divisi soltanto da una considerazione razionale, ma che in realtà sono una cosa sola, come ben sa chi si intende di atletica.
Non mai abbastanza rimpianta sarà la perdita di un’altra scultura di Mirone, che conosciamo soltanto attraverso alcuni epigrammi: essa raffigurava l’attimo dello scatto di un podista, ancora fermo e già in movimento.
FIDIA E POLICLETO
Poco si conosce dell’attività di Fidia come scultore atletico, ma, nonostante fosse ai suoi tempi famosissimo, oggi abbiamo di lui una conoscenza soltanto parziale, non comparabile con l’importanza che questo genio ebbe nella storia delle arti figurative. Forse l’immagine più vicina al mondo atletico da lui realizzata è l’Amazzone scolpita per Olimpia, copia della quale è visibile presso i Musei Capitolini di Roma.
Anche Policleto è artista fondamentale nella scultura atletica. Fu lui ad elaborare una sua teoria sulle proporzioni perfette, intitolando il suo trattato sulle proporzioni maschili “il Canone”. Le sue regole erano fondate su una specifica unità di misura: il dattilo, ossia il dito. La statura doveva essere di otto teste, ossia non eccessivamente slanciata, tanto che già dagli antichi le figure di Policleto erano considerate un po’ troppo massicce. Policleto scolpì numerose statue per Olimpia, molte delle quali raffiguranti vincitori di giochi, ma di esse non restano che poche basi, seppur originali.
PRASSITELE, SKOPAS E LISIPPO
Prassitele cercò la perfezione del nudo femminile raggiungendo, già nel mondo antico, una straordinaria fama. Nell’Hermes con Dioniso, il dio non è raffigurato sotto le spoglie di muscoloso atleta, ma piuttosto di un giovane dalla struttura aggraziata, armoniosamente morbida. L’artista, che pur divenne assai celebre ed ebbe grande fortuna nella scultura ellenistica, non può comunque essere considerato tra gli idealizzatori delle forme atletiche.
A Skopas di Paro (attivo tra il 390 e il 370 a.C.) sono da attribuire i frontoni del tempio di Tegea, di cui ci sono giunti solo pochi frammenti riguardanti soprattutto le teste. Fu scultore dallo stile passionale e agitato, e certamente egli è da ascrivere tra i maggiori artisti che abbiano raffigurato scontri e lotte.
In realtà, però, la maggior parte degli storici antichi videro in Lisippo l’insuperabile maestro che chiuse il ciclo della scultura greca. Elaboratore di un nuovo Canone che detronizzò quello di Policleto, Lisippo ne applicò le regole in un gran numero di sculture, nel corso di una vita singolarmente fortunata che lo condusse alla brillantissima carica di scultore di corte di Alessandro Magno.
Di tutta la sua vasta produzione, che, sventuratamente ci è nota soltanto attraverso copie, l’opera più bella che oggi conosciamo è senz’altro l’Apoxyòmenos (l’atleta che si deterge la sabbia con lo strigile, dopo la fatica della gara), la cui perfezione armonica è ammirabile nei Musei Vaticani. È un corpo elegante, assai lontano dai massicci atleti mironiani da cui, del resto, è diviso da circa un secolo e mezzo di intensissimo divenire della forma ideale. Giustamente si scrisse che in tutta la scultura ellenica mai si raggiunse una simile padronanza dello spirito.
LA PITTURA ELLENICA
Un lungo discorso meriterebbe l’interpretazione del mondo atletico data dai pittori ellenici. La grande pittura, quella parietale, che certamente esistette e che suscitò l’ammirazione degli scrittori antichi che la videro, è per noi un sogno quasi sconosciuto, che possiamo rievocare solamente attraverso scritti ed epigrammi.
Ciò che resta, e si tratta di documenti importantissimi che talvolta sfociano in vere e proprie opere d’arte, sono le decorazioni vascolari, che mostrano gare di pugilato, di lotta, di corse dei carri, di competizioni atletiche, reali o leggendarie.
GLI ETRUSCHI
Nella penisola italica l’attività atletica ebbe larga diffusione anche grazie all’influsso ellenico: si ricordano, tra gli Italioti e Sicilioti delle colonie greche, ben 103 vincitori di Olimpiadi.
Gli Etruschi, che vissero in un mondo tanto più chiuso rispetto a quello dei Greci, ebbero in comune con questo, oltre a molti aspetti dell’arte e della vita, anche l’amore per l’esercizio fisico. Sebbene ancora (forse erroneamente) considerato un popolo misterioso, gli Etruschi mostrano tuttavia un chiaro legame con la prima civiltà greca, con cui ebbero forse qualche radice comune nelle remote origini e da cui progressivamente si distaccarono, specie quando l’arte ellenica assurse ad altezze vertiginose.
Fra i lati comuni col mondo ellenico, essi ebbero anche quello dell’interesse per l’esercizio fisico. Ogni occasione, ogni rito religioso, ogni cerimonia funebre era adatta per organizzare agoni atletici, mentre l’allora selvaggia natura dell’Italia centrale e le lunghe coste marine erano luoghi adatti alla caccia, alla pesca, al tuffo, al nuoto. Frequenti nei dipinti delle tombe, i soggetti agonistici ricorrono molto spesso anche in opere d’arte realizzate con diversa tecnica: lastre fittili di fregi dei templi, sculture in terracotta ed in metallo, decorazioni di vasi, incisioni nel bronzo. Sono giochi del tutto simili a quelli praticati nel mondo ellenico.
LE TOMBE ETRUSCHE
Non sono tanto le statiche sculture a donarci la prova di un’arte etrusca volta a rappresentazioni sportive, quanto gli straordinari affreschi delle tombe.
Nella Tomba del Colle, a Chiusi, è dipinto un serratissimo scontro di lotta, diretto da un vigile istruttore, pronto a reprimere a colpi di verga ogni fallo: con una presa ancor oggi comune, uno dei contendenti è rovesciato dall’altro che lo fa volteggiare in aria con un’abilità ed un’apparente assenza di sforzo degni di un maestro di lotta.
Fra i più importanti ritrovamenti archeologici legati all’oggetto del nostro articolo è senza dubbio la Tomba delle Olimpiadi di Tarquinia, che merita una particolare citazione perché è una piccola antologia dedicata agli esercizi atletici. Sulla parete sinistra è rappresentata la corsa, il salto, il lancio del disco e una crudele scena della lotta che un uomo, con la testa avvolta in un sacco, conduce contro un animale aizzato dal Phersu, misteriosa figura di apparenza demoniaca che già si ritrova in altre tombe etrusche. Brandendo una frusta l’uomo si difende disperatamente menando colpi alla cieca.
Sulla parete di destra, invece, sono raffigurati il pugilato e una corsa di bighe al galoppo: mentre la gara procede a ritmo serratissimo e l’atleta che corre verso la vittoria si volge indietro a sorvegliare la biga avversaria di cui ode alle spalle il galoppo incalzante, nelle ultime posizioni succede un disastro: si è sciolto il nodo con cui l’auriga, come gli altri concorrenti, aveva assicurato attorno alla cintura le redini, che finiscono aggrovigliate tra le zampe di uno dei due cavalli. Il leggero carro si rovescia e l’uomo è scagliato per aria, in un volo pauroso.
La Tomba delle Olimpiadi, databile intorno al 520 a.C., ha il suo corollario anche a Roma, nel Museo Etrusco di Villa Giulia, sulle pareti laterali della cosiddetta Tomba del Letto Funebre, ritrovata anch’essa a Tarquinia e datata al 460 a.C.
Scoperta nel 1873, la tomba è un’ampia camera quadrangolare scavata nella roccia, con soffitto a doppio spiovente e trave di colmo in rilievo; conteneva dei letti per le sepolture, di cui restano gli incassi per i piedi nel pavimento. Soffitto e pareti sono tutti decorati: sulla trave centrale sono dipinti rosoni e tralci di edera, sugli spioventi un motivo a scacchiera che richiama un tappeto; sulle pareti un grande fregio figurato è sovrapposto ad uno zoccolo con delfini guizzanti sulla superficie increspata del mare. Quello che interessa la nostra trattazione sono le due pareti laterali, in cui sono dipinti giochi e danze, gare di pugilato e corse di carri, danze armate e lancio del disco, esercizi acrobatici a cavallo.
Le Tombe di Tarquinia sono quindi un chiaro esempio di monumento dedicato all’esaltazione dell’agonismo sportivo.
I ROMANI
Ancora prima che l’arte romana cominciasse ad avere un volto ed un nome, un artista altrimenti sconosciuto, Novios Plautios, incideva a bulino sul bronzo una scena relativa all’avventura degli Argonauti. In questa splendida raffigurazione si trova un curioso particolare: un giovane atleta, dal corpo robusto ed armonioso, si esercita contro un sacco di sabbia che pare di cuoio e di fattura del tutto simile a quelli in uso anche nelle palestre di oggi, mentre un grasso sileno, seduto accanto ad una fonte a protome leonina, stringe i pugni per mimare grottescamente il gesticolare dell’atleta.
È la Cista Ficoroni, opera d’arte conservata al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, destinata a custodire i trucchi e gli imbellettamenti di una giovane signora. Il soggetto, ossia il mito degli Argonauti, è chiaramente ellenico, e solo grazie allo studio dell’epigrafia incisa su di essa la Cista può essere datata attorno al IV secolo.
Siamo di fronte ad uno dei primi soggetti di arte propriamente “italica”. Molto tempo dovrà ancora trascorrere prima che si possa parlare di arte veramente romana, tanto che dovremo incamminarci per ancora parecchi decenni nella cronologia della Repubblica, arrivando non lontani dalle soglie dell’Impero.
Importando dagli Etruschi e dai Greci non soltanto le opere ma anche gli artefici, rapidamente Roma diviene una fervida officina. Tuttavia l’iconografia sportiva dei Romani non è paragonabile neppur lontanamente a quella greca, poiché sono mutati i tempi e gli spiriti. Per gli Elleni il raggiungimento di un’ideale forma atletica, nonché la realizzazione di un perfetto rapporto di forme, ebbero il fascino di un mito e le Olimpiadi furono un capolavoro in se stesse, ancor prima di essere ispiratrici di capolavori.
Non è un caso che, fra i ruderi degli edifici sportivi dell’antico mondo romano, la stragrande maggioranza raffiguri anfiteatri, visibili in Italia, in Gallia, in Africa. Essi erano i più numerosi tra gli edifici sportivi. Scopo normale di tali costruzioni erano le venationes ed i ludi gladiatorii: l’interesse per la lotta mortale fra schiavi, allenati alla ferocia e costretti ad Infierire l’un contro l’altro con armi aguzze ed affilate, non avrebbe certo attecchito nell’animo dei Greci, popolo votato allo spirito sportivo nel sacro recinto di Olimpia che mai avrebbe gradito l’atrocità di un pubblico inferocito pronto a chiedere non la sconfitta ma la morte del contendente non gradito.
Inutilmente i ceti più colti di Roma chiedevano la proibizione dei ludi gladiatorii: il popolo ne era sempre più assetato, tanto che l’importanza di tali giochi andò aumentando nel corso dell’Impero.
A Roma lo sport non fu l’anima di un popolo, ma piuttosto un fenomeno di massa, una manifestazione esterna che finì per degenerare in vero e proprio strumento politico. Se l’individualismo greco ci lasciò meravigliose opere che recano un’impronta individuale, la potenza romana ci lasciò complessi architettonici impressionanti per la loro mole: anfiteatri, circhi, stadi e gigantesche palestre, spesso inserite in edifici termali di proporzioni mastodontiche.
Se si trovano frammenti artistici di una certa importanza anche a livello decorativo, come i fregi raffiguranti i gladiatori ospitati presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, o gli splendidi tardi mosaici che decorano oggi il pavimento della Sala di Ingresso della Galleria Borghese, il paragone fra l’intendimento dello sport ai tempi dei Greci e dei Romani pare impietosamente, artisticamente parlando, a favore dei primi. I riflessi dell’atletica sull’arte greca furono in alcuni casi fonte di altissima poesia, mentre quelli sull’estetica romana generarono soprattutto grandiosi fenomeni di architettura, ossia di arte volta a scopi anche pratici: un chiaro segno della differenza di indole fra questi due grandi popoli dell’antichità.