I culti misterici nell’Antica Roma

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I CULTI MISTERICI NELL’ANTICA ROMA

Un’iscrizione greca rinvenuta a Roma e risalente al III-IV secolo d.C., esposta nel 2005 al Colosseo durante una mostra dedicata ai culti misterici, appartenuta al sepolcro di un fanciullo che i genitori avevano già eletto “sacerdote di tutti gli dèi”, recitava letteralmente così: “In loro onore sempre ho celebrato solennemente i Misteri, ma ora ho lasciato la dolce luce del sole. Perciò voi, iniziati o compagni di ogni sorta di vita, dimenticate i sacri Misteri, uno dopo l’altro, poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi soltanto sette anni e dodici giorni”.

Il filo di questa giovane vita si spezzò certamente troppo presto, ma quel che attira la nostra attenzione è la parola “misteri”, da interpretare certamente in modo differente rispetto a quanto si faccia oggi. Ciò che infatti, in epoca moderna, è sinonimo di occulto e incomprensibile, ai tempi dell’Antica Roma (ed anche in altre culture, precedenti o contemporanee a quella romana) indicava piuttosto un’esperienza religiosa profonda, che toccava la fede dell’individuo ed in particolare le sue speranze per l’aldilà. Con la parola “misteri”, all’epoca, si sottintendeva un universo di riti segreti e di cerimonie notturne, che procuravano, a coloro che venivano ammessi a parteciparvi, una sorta di mistica esperienza divina, che regalava all’iniziato la speranza di un’imminente salvezza.

Come accennato, ogni civiltà ed ogni cultura ebbe i propri “misteri”, da Demetra a Dioniso, da Iside a Mitra. Attraverso il sincretismo, poi, grazie ad una mescolanza di fedi e culti, i culti misterici conobbero una diffusione sempre più ampia: l’accanimento con cui Clemente di Alessandria ed altri autori cristiani combatterono le esperienze misteriche dimostra l’importanza che esse ancora avevano nel tardo Impero Romano.

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Al di là delle ovvie peculiarità che differenziavano ogni culto misterico dagli altri, l’elemento comune a tutti questi culti era il mantenimento del segreto. Come indicato nei misteri di Eleusi, dedicati a Demetra, “non è consentito profanare né indagare né rivelare, poiché la reverenza per gli déi trattiene la voce”; chiunque profanasse i riti o rivelasse il segreto, se colto in flagrante, poteva essere condannato seduta stante dai sacerdoti e giustiziato senza appello. Un celebre processo, in tal senso, fu quello avente come imputato il celebre generale greco Alcibiade, che nel V secolo a.C. venne condannato a morte in contumacia e maledetto ritualmente dai sacerdoti per aver deriso i misteri in casa propria, per burla e in stato di ebbrezza.

Le fonti letterarie abbondano di riferimenti terminologici (mysteria, initia) ma offrono ben pochi particolari sulle modalità delle celebrazioni e sui contenuti teologici di ogni singolo culto: la motivazione di questa carenza informativa nasce proprio dall’obbligo, per chiunque prendesse parte ai riti, di mantenere il segreto. Si aggiunga a ciò che la stragrande maggioranza delle testimonianze sull’argomento è costituita da notizie di autori cristiani, che appaiono impegnati soprattutto a difendere il Cristianesimo da ogni pericoloso raffronto con i “miserabili culti pagani”, sul principio secondo cui la storia viene scritta dai vincitori. In tal senso, i molteplici reperti archeologici legati al fenomeno dei culti misterici contribuiscono ad allentare i nodi, ma non sciolgono la matassa, che resta particolarmente intricata.

Altro elemento che sembra fungere da elemento di contatto fra tutti i culti misterici è la presenza di una cerimonia iniziatica di ammissione, al termine della quale l’ammesso al culto riceveva una sorta di rivelazione di alcuni segreti connessi alla divinità, la cui conoscenza apriva il portone di una salvezza promessa e data come certa, in virtù di un legame più personale ed intimo con la divinità stessa. Tale comunione, intima e privata, con l’entità superiore si realizzava mediante una sorta di “visione o illuminazione”, che donava all’iniziato che avesse contemplato il segreto misterico emozioni e sentimenti nuovi: nei culti misterici, quindi, la salvezza equivaleva ad una trasformazione spirituale dell’individuo, che si sentiva maggiormente conscio della realtà circostante avendone compreso (almeno in parte) il dipanarsi dei fili.

Fu solo con il progressivo svilupparsi del concetto di “anima” che tali fenomeni religiosi puntarono anche verso altri obiettivi, promettendo la speranza di un oltretomba migliore e di una redenzione ultraterrena dell’anima stessa.

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IL CULTO DIONISIACO

Il già citato Clemente di Alessandria definisce il culto misterico di Dioniso come “inumano”, narrandone la mitologica genesi. Dioniso era solo un bambino quando i Titani si introdussero nella sua casa con l’inganno, attirandolo con qualche giocattolo e facendolo quindi a pezzi per mangiarselo; gettarono infatti le membra del bambino in un calderone, le bollirono e poi le conficcarono sugli spiedi per arrostirle. Solo a quel punto, impietosito dalla macabra scena, Zeus scelse di intervenire, fulminando i Titani; dal cuore di Dioniso, unica parte del corpo sfuggita alla cottura, Atena creò un nuovo corpo, permettendo a Dioniso di resuscitare e tornare a vivere.  

Il racconto appena narrato spiegherebbe il perché, attorno agli altari di Dioniso, siano stati spesso ritrovati oggetti votivi in argilla modellati come giocattoli infantili, come trottole, piccole sfere e astragali. Tutto quanto accennato, però, sembra andare in contrapposizione con la versione tradizionale del culto di Dioniso, che nella Grecia classica costituiva un elemento del pantheon tradizionale, era un dio del culto civico, venerato pubblicamente con feste autunnali collegate alla coltivazione della vite e alla fertilità della natura.

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Al contempo, però, esisteva anche un culto dionisiaco di forma privata, che pur senza richiedere cerimonie formali in particolari santuari o curiosi riti di iniziazione, formule esoteriche e cerimonie segrete, pure esprimeva una religiosità di tipo mistico: Dioniso era detto infatti anche Bacco, signore dell’estasi, in grado di propagarsi quasi contagiosamente da un individuo all’altro.

In aggiunta a ciò, Bacco era mitologicamente considerato come una divinità itinerante e “progressista”, che nel suo peregrinare non aveva solo insegnato l’uso del vino e trasmesso ai fedeli l’esaltazione che deriva dal suo consumo, ma che aveva anche invitato le donne ad abbandonare i lavori femminili e a lasciarsi trasportare dalla follia divina, diventando per l’appunto “baccanti”, fanciulle invasate in trance estatica, piene del furore divino.

Ovviamente, questa eccitazione talvolta degenerava, come raccontato da Euripide nelle Baccanti: ed ecco quindi le orge, che promettevano a chi partecipava un’evasione controllata dalla realtà ordinaria, nella quale erano protagoniste soprattutto le donne, portatrici di un’eccitazione primordiale in grado di fare infrangere ogni regola del buon costume.

Nell’iconografia e nelle decorazioni artistiche, poi, il mito si confonde col rito, con le sacerdotesse danzanti mescolate alle immagini del mitico corteo di Dioniso, fatto di sileni, satiri e menadi invasate: è proprio da questo intreccio di furore estatico ed evasione dalla realtà che hanno origine i misteri dionisiaci.

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Confraternite intitolate a Dioniso continuarono a celebrare i loro misteri fino alle soglie dell’era cristiana (l’arte cristiana si impadronì di Dioniso come figura salvifica, trasformandolo in un simbolo del Cristo vincitore sulla morte), come testimoniato da un’iscrizione presente nel tempio di Adriano ad Atene e da una lamina scoperta a Roma, nella tomba di Cecilia Secondina (II secolo d.C.). Per quanto concerne i riti estatici, basterebbe la cosiddetta Villa dei Misteri a Pompei ad evidenziarne la diffusione anche all’interno della cosmopolita società romana, ma volendo scendere nel dettaglio basterà qui citare Il cosiddetto “affare dei Baccanali” che, come raccontato da Tito Livio, vennero vietati in tutta l’Italia nel 186 a.C. con un apposito senatusconsultum a causa della loro sfrenata lussuria.

L’ORFISMO

Col passare dei decenni, il culto di Dioniso iniziò a confondersi con il cosiddetto “orfismo”, culto che fin dal VI secolo a.C. si era organizzato in confraternite che predicavano una vita ascetica ed esaltavano le forze spirituali dell’uomo.

Gli Orfici si richiamavano alle dottrine del mitico Orfeo, il mitologico cantore talmente abile a modulare la propria voce da essersi cimentato in una prova ai limiti dell’incredibile, ossia il riscatto di sua moglie Euridice dall’Oltretomba, ammaliando Plutone e Persefone con il suo canto. Orfeo era però collegato a numerose altre leggende, fra le quali l’essere stato ucciso sbranato da donne furiose (la scena compare su pitture vascolari a partire dal V secolo a.C.) e l’aver composto numerosi poemi sulla natura dell’anima umana.

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Anche gli Orfici, indirettamente, celebravano Dioniso, proprio in virtù di quella miracolosa resurrezione raccontata nel paragrafo precedente. Questa sorta di divino peccato originario costringeva gli iniziati a vivere l’esigenza di una purificazione e l’esperienza di una vita terrena svalutata, in cui il corpo è semplicemente il sepolcro dell’anima, che vuole solo liberarsi dai legami corporali, cosa ottenibile solo aderendo all’Orfismo ed alla sua dottrina, fatta di estasi mistica (e di un regime vegetariano). Al momento della morte, grazie alle istruzioni che avrà appreso nei riti iniziatici, l’anima potrà trovare la sua via di uscita dall’Oltretomba e ritrovare il suo posto tra gli dèi.

Sebbene dunque i due culti non fossero esattamente identici, essi si sovrapposero spesso grazie alle loro esperienze mistiche, mostrando connessioni sullo strumento ascetico e sul desiderio di una via d’uscita dall’insoddisfacente condizione umana, che solo gli iniziati purificati potevano superare grazie alla loro mistica conoscenza.

Le fonti antiche, come Euripide ed Aristofane, ci regalano frammentarie informazioni circa il culto Orfico: gli adepti si chiamavano fra loro con l’appellativo di “Puri”, avevano diversi livelli gerarchici all’interno dell’organizzazione ed in alcuni casi consumavano carne cruda, come rappresentazione sia di Dioniso mangiato dai Titani che di Orfeo sbranato dalle Menadi.  

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La relativa diffusione dell’Orfismo, più nell’Antica Grecia che nell’Antica Roma, è testimoniata dal ritrovamento, sia nella Magna Grecia che a Creta, di quasi trenta piccole lamine poste sul petto o in mano al defunto, allo scopo di ricordargli la sorte felice che lo attendeva nell’aldilà, con frasi del tipo: “Felice e beatissimo, sarai dio anziché mortale”.

La più antica di queste lamine, risalente al V secolo a.C., è stata ritrovata a Vibo Valentia nella cosiddetta Tomba di Ipponio, e contiene dettagliate istruzioni per ricordare al defunto ciò che lo attenderà nell’oltretomba: “Quando ti toccherà di morire e andrai alle case ben costruite di Ade, bada che sulla destra c’è una fonte e accanto s’erge un bianco cipresso; lì scendono le anime dei morti e si animano. A questa fonte non accostarti neppure, ma va’ più avanti: troverai la fresca acqua che scorre dalla palude di Mnemosine. Ivi i custodi ti chiederanno che mai vai cercando nelle tenebre di Ade, e tu dovrai rispondere di essere figlio della Terra e del Cielo, che bruci di sete e che hai bisogno della fresca acqua che scorre dalla palude di Mnemosine. Essi allora, obbedienti al sovrano degli Inferi, ti mostreranno benevolenza e ti lasceranno bere. Allora andrai lontano”.

ATTIS E LA MAGNA MATER

L’astrologo e scrittore romano Giulio Firmico Materno, nel IV secolo d.C., scrisse: “C’è un tempio nel quale, per essere ammesso alla parte più segreta, il candidato deve dichiarare di aver mangiato nel tamburino, di aver bevuto nel cembalo e di aver appreso i segreti di Attis”. Si tratta di una delle tipiche formule di iniziazione che contraddistinguevano i misteri di origine frigia, celebrati in onore di un personaggio legato alla vegetazione, Attis, e della Grande Madre nota anche col nome di Cibele, raffigurata classicamente seduta in trono fra i leoni con la corona turrita.

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Numerose fonti letterarie, monumentali ed epigrafiche testimoniano la presenza di questa dea all’interno del culto dell’Antica Grecia e dell’Antica Roma: presto compare accanto ad essa la figura giovanile di Attis, con il suo canonico berretto frigio, che è strettamente legato a Cibele da una mitologica vicenda, raccontata in molteplici diverse versioni. Secondo Erodoto, ad esempio, Attis muore durante una caccia al cinghiale e viene sepolto e lamentato da Cibele; secondo Pausania, invece, Attis nascerebbe da una principessa fecondata dal frutto di un melograno, a sua volta spuntato dalla terra bagnata dal sangue dell’ermafrodito Agdistis (interpretato da Pausania come una sorta di metamorfosi della Grande Madre Cibele) il quale, innamoratosi di Attis, ottiene che quest’ultimo cada in preda a furore sacro e si tagli i genitali per offrirli proprio ad Agdistis, prima di morire sotto un pino.

Tale seconda versione sarebbe all’origine di una particolare connotazione che Greci e Romani consideravano ripugnante: l’autocastrazione degli adepti i quali, a imitazione di Attis, si votavano cruentemente alla dea. La cerimonia avveniva in un’atmosfera di esaltazione collettiva, realizzata a mezzo di ipnotiche litanie, condite da danze e musiche assordanti. Al culmine della sua folle estasi, il candidato si denudava e si mutilava, consacrandosi alla dea: i genitali venivano a quel punto raccolti in un vaso e conservati come oggetto di culto, mentre il giovane adepto adottava uno speciale abbigliamento e viveva raccogliendo offerte, in cambio di oracoli e di esorcismi.

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L’introduzione del culto di Cibele a Roma avvenne in forma ufficiale: si trattò infatti di un’iniziativa dello Stato repubblicano che nel 204, di fronte alla minaccia di Annibale, ottenne dal re Attalo di Pergamo di poter trasferire a Roma l’immagine della Grande Madre di Pessinunte: una pietra nera, forse di origine meteoritica, che venne trasportata via mare fino a Roma e qui accolta solennemente come una sorta di “arcaica dea romana”, per via delle origini troiane di Enea, mitico fondatore della città latina. La pietra sacra venne dapprima ospitata nel santuario della Vittoria sul Palatino e poi, nel 191 a.C., trasferita in quello costruito appositamente sul medesimo colle.

Da questo momento, Cibele divenne oggetto di culto pubblico, con festività a cadenza annuale, ma restò comunque sempre vista con una certa diffidenza, con gli eunuchi frigi confinati nel santuario, oggetto di curiosità e di sarcasmo per il loro stato ed i loro costumi esotici. Insieme alla dea era venerato anche Attis, come testimoniato dalle molteplici terrecotte votive che lo raffigurano, rinvenute negli scavi del tempio.

Con la nascita dell’impero, poi, i riti delle divinità frigie trovarono rinnovato vigore, come testimoniato dal restauro del tempio finanziato da Augusto, dalla costruzione di un secondo tempio alle pendici dell’Aventino e dalle importanti riforme di Claudio (I secolo d.C.) e Antonino Pio (II secolo d.C.), che istituirono una vera e propria celebrazione in suo onore, da tenersi in primavera (solitamente dal 15 al 27 marzo), con processioni del pino sacro, mutilazioni fisiche, veglie notturne e manifestazioni di estasi, in ricordo della vicenda di Attis.

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Subito dopo la festa di marzo, a cui chiunque poteva partecipare, si celebrava anche un culto iniziatico per Cibele e Attis, a cui probabilmente si riferisce la formula riferita da Firmico Materno, citata ad inizio del paragrafo. Al fine di ottenere la salvezza, il candidato doveva consumare un pasto sacro e poi accedere ad un locale riservato, ricevendo la rivelazione integrale della vicenda divina e la visione di oggetti e simboli sacri, ottenendo al termine del percorso garanzie di salute, prosperità e benessere per il resto della vita.

Un elemento connesso al culto di Cibele, e che ritroveremo poi nell’analisi del Mitraismo, è il cosiddetto “taurobolio”, che si iniziò a diffondere fra gli adepti a partire dal II secolo d.C.: si trattava del sacrificio rituale di un toro, documentato da parecchie iscrizioni votive e descritto dallo scrittore Prudenzio. L’adepto scendeva in una fossa, che veniva poi chiusa con una grata metallica o con tavole di legno forate: sopra di esse veniva quindi sgozzato l’animale, il cui sangue colava allora attraverso le fessure e bagnava l’uomo sottostante, che usciva dalla fossa e si mostrava ai partecipanti in adorazione come se fosse rinato a una nuova vita, in una versione pagana del battesimo cristiano.

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IL CULTO DI SABAZIO

Divinità di origine tracia associata ai serpenti, Sabazio apparve in Grecia alla fine del IV secolo a.C., con riti di tipo orgiastico e agrario che ne confondevano in parte la figura con quelle di Cibele e Attis. In realtà però, sia nell’antica Grecia che a Roma, tale culto mantenne sempre la caratteristica di culto straniero, a malapena accettato e talora anche deriso, come raccontato dall’oratore ateniese Demostene.

Sulla base delle cronache giunte sino a noi, l’iniziazione ai misteri di Sabazio si svolgeva di notte: coperto da una pelle di animale, il candidato consumava carne di agnello cruda e una bevanda mistica, per poi venire disteso a terra e cosparso di fango e crusca, in una sorta di rituale purificatorio. A quel punto, egli pronunciava una formula di fede e si predisponeva a una mistica unione carnale col dio, con il sacerdote che faceva passare sotto le vesti un serpente dorato rappresentante proprio Sabazio, mitologicamente generato da Persefone dopo l’unione con Zeus sotto forma di serpente.

Nell’Impero Romano, l’assimilazione a Sabazio come una sorta di “dio salvatore” si accentuò notevolmente, tanto da aver fatto pensare ad alcuni studiosi che le pitture del cosiddetto Ipogeo di Vibia, all’interno delle Catacombe di Pretestato, potrebbero raffigurare non tanto una coppia di cristiani, ma di adepti del culto di Sabazio.

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Nei Musei Vaticani e nel Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano è possibile ammirare uno dei più celebri oggetti sacri connessi al culto di Sabazio, ossia la celebre “mano bronzea”. Si tratta di una mano destra, atteggiata nel gesto beneaugurante detto benedizione latina, che rappresentava un vero e proprio oggetto liturgico, destinato ai santuari oppure fissato sulle aste durante le processioni. Variamente disposti, fra le dita ed il palmo/dorso della mano, si possono notare un serpente, una pigna, un bustino di Mercurio, una testa di ariete, un vaso, una focaccia, un una bilancia, una tartaruga, una rana, il caduceo alato di Mercurio, una lucertola e molti altri piccoli simboli.

L’accostamento a Mercurio sottolinea il ruolo di divinità “psicopompa” (conduttrice delle anime) di Sabazio. La stessa raffigurazione della bilancia potrebbe ricollegarsi al giudizio divino delle anime dei fedeli, che dovevano essere “pesate” (psicostasia) prima di raggiungere la beatitudine dell’aldilà. Il significato escatologico veniva ulteriormente sottolineato dagli altri simboli alludenti a rinascita e fertilità (pigna), metamorfosi (rana) e rigenerazione (lucertola).

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IL CULTO ISIACO

Erodoto, che visitò l’Egitto nel V secolo a.C., parla di sacre rappresentazioni della passione di Osiride e le paragona ai misteri greci di Dioniso. Parecchi secoli dopo, Plutarco scrive che fu proprio Iside ad aver istituito i santi misteri, in ricordo della sua divina sofferenza e a conforto di chi attraversa le medesime difficoltà.

Il mito di Iside e Osiride si concentrava sulla figura di Iside, partita alla ricerca del cadavere del fratello-sposo Osiride, ucciso e abbandonato in un sarcofago sulle acque del Nilo. Errando fino a Biblo, in Fenicia, la dea trovò qui il corpo di Osiride e lo ricondusse in Egitto. Ma Seth, il fratello assassino, di nuovo si impadronì del cadavere, lo fece a pezzi e lo disperse per tutto il paese: Iside a quel punto fu costretta a rinnovare la ricerca, recuperando faticosamente le membra sparse e dando ad esse sepoltura. Infine arrivò il momento della vendetta e del trionfo della dea, per mano di suo figlio Horus, che sconfisse Seth e poi la aiutò a richiamare in vita lo sposo. Così Osiride tornò a vivere, rimanendo tuttavia nell’aldilà, come sovrano dei morti, giacché sulla terra il regno era ormai nelle mani del figlio Horus.

Nell’antico Egitto questo racconto s’intrecciava con l’ideologia regale: ogni divino faraone sul trono s’identificava con Horus e il suo predecessore defunto con Osiride. Ma presto la democratizzazione del culto consentì di estendere il significato salvifico di questo mito anche al popolo: ogni morto poteva confidare d’identificarsi col dio, mediante opportune formule magiche, e come “novello Osiride” superare il disfacimento del corpo per vivere in un oltretomba sereno.

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A Roma troviamo le prime testimonianze del culto isiaco verso la fine del I secolo a.C., ma non venne immediatamente accettato, venendo anzi spesso considerato come una delle principali concause delle agitazioni del popolo e degli strati sociali più bassi, venendo più volte perseguitato e proibito. Tale persecuzione non impedì comunque che il culto di Iside fosse in grado di reclutare devoti anche fra le classi più elevate, fino ad arrivare ad un vero e proprio ribaltamento in epoca imperiale, con Caligola e Caracalla che guardarono con estremo favore a questo culto. La venerazione di Iside e di Osiride si diffuse allora in tutto l’Impero, conquistando spazi importanti anche a Roma tramite l’Aula Isiaca sul Palatino, l’Iseo Campense e soprattutto il mastodontico tempio di Iside e Serapide sul Quirinale. Altrettanto significativo è stato il ritrovamento dell’Iseo Pompeiano, in cui è stato ritrovato intatto non solo il tempio, con le sue decorazioni, gli oggetti liturgici e le statue votive, ma persino i corpi dei sacerdoti.

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L’Iside adorata nel mondo romano, tuttavia, racchiudeva nella sua figura non solo gli attributi e i simboli dell’antica dea egiziana, ma anche quelli di Demetra e di altre divinità che a lei vennero progressivamente assimilate. Molteplici dediche votive, giunte sino ai giorni nostri, la presentano come “Regina del cielo e della terra, Signora delle leggi e della giustizia, Patrona dell’agricoltura, della navigazione, dell’amore e degli affetti materni, Dispensatrice di grazie, benevola Soccorritrice e Fortuna sovrana”.

Anche Osiride non era più precisamente il dio faraonico, giacché si identificò progressivamente dapprima con Dioniso e quindi con una nuova divinità, Serapide, appositamente creata al tempo di Tolomeo I al fine di raccordare la religiosità greca con la tradizione egiziana: il nome di Osiride venerato a Menfi in forma di toro Apis fu allora modificato e trascritto in greco come Osiris-Apis, da cui le evoluzioni Osorapis, Oserapis e infine Serapis (Serapide). Serapei sorsero quindi ad Alessandria, a Roma e in tutto l’impero, sostituendo Osiride al fianco di Iside.

La grande popolarità del culto isiaco si spiega in parte con la suggestione dei riti quotidiani che coinvolgevano il simulacro della divinità (la statua di Iside veniva svegliata, lavata, profumata, vestita, servita con pasti ed esposta all’adorazione dei devoti), ma anche e soprattutto con le sue specializzazioni nell’ambito delle guarigioni miracolose. Anche i sacerdoti di Iside avevano un fascino particolare, con le loro teste rasate ed i libri geroglifici, così come grande impatto rivestivano le feste dedicate ad Iside, in particolare quella del 5 marzo, il cosiddetto Navigium Isidis (il vascello di Iside) che apriva la stagione marittima di Roma.

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Come raccontato anche da Apuleio nelle sue Metamorfosi, erano però soprattutto le cerimonie misteriche ad alimentare il mito di Iside come divinità salvifica. Non c’erano difatti riti cruenti a contrassegnare la salvezza isiaca, bensì semplicemente una grande fede nei poteri della dea, che alla certezza del suo aiuto nella vita presente affiancava liete speranze per quella futura. Proprio Apuleio fa pronunciare a Iside le seguenti parole: “Quando avrai concluso la tua vita, mi troverai splendente nel buio dell’Acheronte, Regina delle regioni più profonde dello Stige. Vivrai nei Campi Elisi e frequentemente mi adorerai, perché ben disposta io sono verso di te”.

 

IL MITRAISMO

Il grande studioso francese Ernest Renan scrisse: “Se la crescita del Cristianesimo fosse stata interrotta da qualche colpo mortale, il mondo sarebbe divenuto seguace di Mitra”.

Al di là dell’evidente iperbole, questa affermazione spiega perfettamente quale fosse la situazione dell’Impero Romano fra il II e il III secolo d.C., quando il culto di Mitra stava letteralmente proliferando all’interno della popolazione e dell’esercito romano. A propagarlo erano stati infatti soprattutto i soldati delle legioni romane, che lo avevano conosciuto nelle campagne militari in Oriente e che lo diffusero praticamente ovunque, dagli insediamenti lungo il Reno alle valli del Rodano, dalla Bretagna alla Dalmazia, dalla Spagna all’Africa.

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I mitrei, ossia i santuari dedicati ala culto di Mitra, erano dappertutto: solo a Ostia Antica, gli scavi ne hanno riportati alla luce una quindicina, mentre a Roma si attestano per ora attorno alla quarantina, spesso collegati a caserme o altri edifici pubblici. Questo numero è infinitesimale in rapporto alla diffusione del culto nella Capitale dell’Impero: molti studiosi parlano di oltre mille mitrei nella Roma Imperiale, spesso connessi anche a specifiche figure imperiali, come Caracalla (che fece aprire un mitreo sotto le sue terme), Commodo (che si fece iniziare come adepto di Mitra) e Diocleziano (che considerava Mitra come suo protettore personale).

Fu solo con il prepotente avvento del Cristianesimo, progressivamente divenuto culto ufficiale dell’Impero, che i seguaci di Mitra iniziarono ad essere perseguitati: tutto ciò apparve come un’ovvia conseguenza della sovrapposizione di due culti che avevano talmente tante analogie e punti in comune da rendere impossibile la coesistenza.

Mitra era una divinità mediorientale della luce celeste, che giunse a Roma ed ai Romani in una versione edulcorata dalle influenze greche: il dio che i legionari conobbero era insomma una figura composita, talvolta identificata col Sole e talaltra considerata alleata di esso, rappresentata con pantaloni persiani e berretto frigio. Nella stragrande maggioranza dei rilievi, Mitra viene sempre raffigurato come “tauroctono”, ossia come uccisore del toro: tale uccisione costituiva, per gli adepti mitraici, un avvenimento di valore cosmico, dopo il quale Mitra aveva celebrato un banchetto di vittoria e poi era asceso, sul carro del Sole, nelle sfere celesti.

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Una delle caratteristiche fondamentali del Mitraismo era il suo fortissimo carattere misterico: a differenza di altri culti, come quello di Cibele o Iside, il mitraismo non prevedeva alcuna cerimonia pubblica, ma solo riti segreti, riservati a piccoli gruppi di iniziati, che dovevano essere esclusivamente di sesso maschile. Numerose ed assai precise sono le documentazioni inerenti tali riti, come ad esempio il testo di San Girolamo, che afferma come l’iniziazione mitraica prevedesse sette gradi successivi, corrispondenti alle sfere planetarie che il devoto avrebbe dovuto poi superare, nell’aldilà, per raggiungere la luce eterna: il Corvo collegato a Mercurio, la Crisalide a Venere, il Soldato a Marte, il Leone a Giove, il Persiano alla Luna, il Corriere Solare al Sole ed infine il Padre a Saturno. Tutte le cerimonie erano introdotte da un giuramento di segretezza (il cosiddetto sacramentum) e caratterizzate da prove di coraggio, purificazioni, sacrifici e altri riti.

L’atto solenne del culto misterico consisteva comunque in un pasto in comune, che gli autori cristiani paragonano al banchetto eucaristico. Tutti i mitrei, in effetti, si presentano con una conformazione identica, a metà fra un’aula scolastica ed una sala da pranzo: un corridoio centrale permetteva di servire i piatti ai devoti, che si sedevano sui banchi laterali, e conduceva alla nicchia sul fondo, che conteneva la statua o l’affresco di Mitra tauroctono. Si trattava quasi sempre di locali sotterranei o seminterrati, cripte o caverne illuminate da lampade e precedute da una sorta di pronao. All’entrata o sul fondo della sala erano spesso presenti vari simboli cosmici (altari per i sacrifici e vasche per l’acqua), mentre le pareti erano ornate da pitture (come nel mitreo di Santa Prisca sull’Aventino) o da mosaici, e la volta riproduceva solitamente il cielo stellato.

Nei mitrei si svolgeva una cerimonia settimanale (solitamente la domenica), oltre alle periodiche iniziazioni ed alla grande festa annuale del 25 dicembre, anniversario della nascita di Mitra, immaginato fuoriuscente da una rupe (petrogenito).

Nella complessa fede mitraica, l’uccisione del toro aveva il valore di una lotta di alto significato morale e chiamava il fedele a essere soldato del bene nella guerra incessante contro il male. Il banchetto mitraico, inoltre, ripeteva quello celebrato da Mitra vittorioso con i suoi alleati, ma al contempo anticipava quello finale, quando Mitra avrebbe suscitato i morti dal sonno e separato i giusti dai malvagi. Le iscrizioni dei mitrei sono chiarissime documentazioni delle aspettative degli adepti: l’esperienza del successo di Mitra, l’atto di fede nei suoi poteri di creatore e redentore, il vincolo di solidarietà con gli altri iniziati e la gioia di poter celebrare insieme il culto divino rappresentavano solo tappe essenziali per il raggiungimento della salvezza eterna.

IL MITREO BARBERINI

Tra i numerosi mitrei romani si segnala, per importanza e stato di conservazione, il Mitreo Barberini, scoperto nel 1936. Risalente al III secolo d.C., esso è costituito da una sala con volta a botte, lunga circa 12 metri, avente la consueta struttura architettonica, con due banconi laterali per accogliere gli iniziati e in mezzo un altare, in muratura intonacata.

La particolarità di questo mitreo è data invece dalla decorazione pittorica che si trova sulla parete di fondo (solo il Mitreo di Santa Prisca presenta una altrettanto interessante decorazione pittorica), consistente in un grande affresco suddiviso in riquadri: il maggiore, al centro, rappresenta come di consueto Mitra che uccide il toro, mentre un cane e un serpente succhiano il sangue dell’animale e uno scorpione gli morde i testicoli. Assistono alla scena due personaggi con fiaccole (Cautes e Cautopates, interpretazioni solari di Mitra mattutino e vespertino); in alto è possibile vedere i segni dello Zodiaco, con il Sole e la Luna.

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Dieci quadri più piccoli corredano quello centrale, in due fasce laterali, con altri episodi e protagonisti del mito: a sinistra si vedono, dall’alto, Zeus che fulmina i Giganti, il dio Saturno e poi Mitra, nascente da una roccia, che fa scaturire l’acqua colpendo la pietra con una freccia e che trasporta il toro; a destra invece sono raffigurati il banchetto mistico, Mitra che sale sul carro del Sole, il patto di alleanza tra i due, ancora Mitra inginocchiato tra due alberi e di nuovo Mitra con il dio Sole.

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