Il teatro nell’Antica Roma

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IL TEATRO NELL’ANTICA ROMA

A Roma il teatro stabile comparve con notevole ritardo, data l’ostilità della classe aristocratica alle rappresentazioni teatrali: tuttavia le fonti classiche, in particolare Livio, ricordavano oltre a varie strutture effimere anche la presenza di “un teatro e un proscenio” eretti nel 179 a.C. presso il Tempio di Apollo (di cui non sono stati trovati resti) ed un teatro eretto nel 154 a.C. nei pressi del Tempio della Magna Mater sul Palatino, che sarebbe però stato demolito poco dopo per decisione dei senatori, convinti a ciò da Scipione Nasica. In questo secondo caso, la fonte principale a conferma di tale informazione sarebbe lo svolgimento dei Ludi Megalenses, dedicati proprio al culto della Magna Mater.

Con il Teatro di Pompeo, eretto nel 55 a.C. in una zona di sua proprietà al di fuori del pomerio grazie a una mediazione politico-religiosa e architettonica, basata sulla costruzione di un sacello di Venere in grado di “confondere le acque” ai senatori ed al popolo romano, ebbe origine ufficialmente il teatro di tipo romano: un edificio totalmente in muratura, con tutti gli elementi costitutivi della struttura teatrale integrati in un unico organismo, che proprio per la sua peculiarità poteva vivere del tutto svincolato da situazioni orografiche e poteva occupare nella pianificazione urbanistica della città il posto più idoneo con l’orientamento più logico.

Il teatro romano, infatti, non aveva necessità di un pendio cui appoggiare la cavea (anche se può talvolta utilizzarlo nel caso se ne presenti l’opportunità), ma distendeva le sue gradinate divise in più zone (maeniana) su un complesso sistema di sostruzioni semicircolari e radiali, come visibile ad esempio presso Ostia Antica. All’esterno il teatro presentava una facciata ad arcuazioni a due o tre ordini, da cui il pubblico entrava, e che definivano all’interno ambulacri semicircolari a varie altezze; questi ambulacri erano coordinati tra di loro da corridoi radiali, parzialmente occupati da scale, indispensabili per raggiungere i piani più alti e per garantire una rapida circolazione degli spettatori nell’edificio.

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La cavea era spesso coronata da una galleria coperta, detta porticus in summa cavea. Lo spazio dell’orchestra, anziché circolare come in quello greco, era ridotto all’emiciclo verso la cavea; l’edificio scenico aveva il palcoscenico (pulpitum) non molto alto rispetto al piano dell’orchestra (circa un metro e mezzo), con la fronte articolata in nicchie e decorata con rilievi. Sotto il pulpito vi era uno spazio con la fossa per il sipario (aulaeum), che si arrotolava in basso scorrendo per lo più su pali verticali infissi in blocchi di pietra.

La facciata della scena (scaenae frons), una struttura architettonica a due o più piani coperta da una tettoia che facilitava la risonanza, era abitualmente coordinata come altezza alla cavea ed è riccamente decorata con ordini architettonici sovrapposti: poteva essere rettilinea oppure articolata in nicchie, generalmente tre semicircolari o una centrale semicircolare e due rettangolari ai lati. Nelle nicchie si aprivano le tre porte dalle quali entravano gli attori, di cui la centrale era detta valva regia e le due laterali valvae hospitales. Ai lati della scena vi erano svariati ambienti usati dagli attori e comunicanti con il palcoscenico e le aule con funzioni di foyer; alle spalle dell’edificio scenico si trovava spesso invece la porticus post scaenam, uno spazio porticato per accogliere gli spettatori in caso di pioggia o durante gli intervalli.

Non più struttura geometrica aperta come quello greco, il teatro romano risultava quindi essere un edificio chiuso, con grandi vantaggi sia per l’estetica che per l’acustica, cui mancava solo una copertura stabile per essere uguale al nostro teatro moderno: poteva infatti essere coperto, ma solo provvisoriamente, con grandi teloni di seta o di lino, i cosiddetti velaria, identici al più celebre di essi, quello adoperato per l’Anfiteatro Flavio.

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Il teatro dedicato da Augusto al nipote Marcello, di cui ancora oggi si possono ammirare i magnifici resti, è il primo teatro elaborato in maniera compiuta (e senza “sotterfugi”) nel 13 a.C., nel quale in realtà fin dal 17 a.C. vennero celebrati i Ludi Saeculares. L’edificio probabilmente servì da modello per la maggior parte delle strutture teatrali che nel giro di qualche decennio si diffusero nella Penisola, grazie anche alla fondazione di nuove città o alla ristrutturazione di impianti urbanistici più antichi da parte di Augusto.

Nel I secolo d.C. il teatro romano si diffonde in tutto l’Occidente romanizzato e, con un certo ritardo, in Africa e nel mondo orientale; in Asia Minore si diffuse un tipo particolare di teatro, definito “romano-microasiatico”, che manteneva la pianta del teatro greco, cui giustapponeva la scena del teatro romano. Notevole appare ancor oggi, grazie agli schiavi archeologici, la presenza di teatri romani nelle zone di più antica civiltà, come la Palestina, la Siria o l’Egitto, tutte Province che erano rimaste parzialmente estranee alla costruzione dei teatri di stampo greco. I Romani infatti utilizzarono il teatro come “veicolo di romanizzazione”, grazie anche al suo valore simbolico di luogo delle libertà democratiche e politiche: per questa ragione, non solo i Romani costruirono nuovi teatri, ma restaurarono quelli già esistenti soprattutto nell’edificio scenico, che quasi ovunque venne trasformato secondo la tipologia romana con la scaenae frons ricca di marmi colorati, rilievi e statue.

LO STRATAGEMMA DI POMPEO

Come già accennato, a Roma non fu possibile la costruzione di teatri stabili fino al 55 a.C., anno in cui venne inaugurato il Teatro di Pompeo, esattamente nella data del 29 settembre, anniversario del suo munifico costruttore.

Gli autori antichi sottolineano lo stratagemma cui ricorse Pompeo, che spacciò la cavea per la scalinata d’accesso al tempio di Venere Vincitrice. In realtà la costruzione era stata resa possibile sia dal notevole potere acquisito da Pompeo grazie alle sue vittoriose guerre in Oriente, sia perché l’area era probabilmente di sua proprietà e posta al di fuori del pomerium urbano. Pompeo aveva potuto perciò progettare un insieme unico in cui molteplici indicazioni architettoniche e urbanistiche di origine ellenistica, mediate da elementi italici, erano state elaborate a costituire un complesso unitario di grandiosità senza pari nella Roma della fine della Repubblica.

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Tutto il complesso era costituito da due nuclei: a ovest il teatro con il tempio, a est i portici con le esedre (di cui la centrale era utilizzata come curia), mentre a una certa distanza a nord-ovest, nel sito ove poi sarebbe sorto l’Odeon di Domiziano, si trovava probabilmente la villa privata di Pompeo.

Il teatro era di dimensioni straordinarie, con un diametro di circa 150 metri, misura mai superata a Roma e uguagliata solo poche volte da qualche altro teatro imperiale. Oggi il teatro è invisibile, nascosto da interi isolati sorti nei secoli sulle strutture della cavea, la cui forma curvilinea è ripercorsa dalle facciate dell’odierna Piazza di Grotta Pinta, mentre la linea della facciata esterna è intuibile dal profilo delle costruzioni di Via del Biscione e Piazza Pollarola. Le recenti ristrutturazioni hanno messo a nudo, nelle cantine degli stabili, le pareti di tufo in opus reticulatum che costituivano i muri portanti della cavea, cosi come le volte inclinate in cementizio che le collegavano.

Nulla è visibile della scena, che comunque ci è nota dalla Forma Urbis severiana, che essendo databile all’inizio del III secolo mostrava ovviamente una fase successiva della scena, non quella originaria: nella pianta la scaenae frons appare infattiprovvista di una nicchia centrale rettangolare e due nicchie laterali semicircolari. I portici, larghi e di pianta articolata, ospitavano al centro un ampio viale tra due boschetti di platani, fiancheggiati da fontane le sormontate da statue, tra le quali un tritone e un personaggio dell’Odissea come tramandatoci da Marziale.

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La zona terminale a oriente del teatro, ossia quella che giungeva a ridosso dei templi repubblicani dell’Area Sacra di Largo Argentina, era articolata in esedre. Quella centrale, di dimensioni notevolmente più grandi, accoglieva una statua di Pompeo che sorreggeva il globo con la mano destra, creando quindi un evidente collegamento simbolico fra la statua di Venere Vincitrice, che aveva guidato e protetto Pompeo, e quella del condottiero stesso, che così veniva investito di un valore sacrale.

Per uno strano scherzo del destino, fu proprio nella Curia di Pompeo che si riunì il senato in quelle fatidiche Idi di Marzo del 44 a.C., quando fu ucciso Cesare, che crollò presso la statua del grande antagonista. A dispetto dell’aura nefasta che indirettamente lo colpì a causa di questo evento, il Teatro di Pompeo rimase sempre il più importante della città, continuando ad essere fatto oggetto di regolari restauri, l’ultimo dei quali venne effettuato nel VI secolo d.C. per opera di Teodorico.

GLI SPETTATORI

Gli spettatori erano distribuiti nei diversi ordini secondo regole precise che, nel corso dei secoli, subirono una serie di variazioni. Risale al 194 a.C. la prima indicazione a Roma in tal senso, ovviamente relativa a teatri provvisori: Livio racconta infatti che “da cinquecentocinquantotto anni (ossia dalla fondazione di Roma) i posti degli spettatori non erano stati distinti. Cos’era accaduto improvvisamente perché i patrizi non volessero più trovarsi accanto ai plebei? Per quale motivo il ricco disdegnava la vicinanza del povero? Era un capriccio nuovo e ingiurioso che i senatori d nessuna nazione avevano mai concepito”.

Fu Caio Gracco, nel 123 a.C., a riservare le prime 14 file del teatro agli equites: la disposizione fu abrogata da Silla, ma prontamente ripristinata dal tribuno della plebe Roscio, nel 67 a.C., che per questo motivo fu oggetto di fischi e di insulti in teatro a causa di questo atto cosi impopolare. A difenderlo dovette intervenire addirittura Cicerone, che con una delle sue celebri arringhe riuscì a convincere gli spettatori, che da quel momento mutarono i fischi in applausi.

Con la costruzione dei teatri stabili in muratura, a Roma si ratificarono le differenze: la proedria infatti era destinata agli scranni dei senatori, l’ima cavea agli equites, mentre i cittadini trovavano posto nelle gradinate superiori. Alle matrone invece era riservata la porticus in summa cavea, che aveva lo svantaggio evidente di una visibilità scarsa, ma che almeno offriva loro una discreta protezione dai raggi solari.

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Il problema più ovvio, in una simile disposizione, era quella del contatto tra uno spettatore e l’altro, sia nella stessa fila che fra file diverse, con i piedi di colui che fosse seduto nel gradito superiore attaccati alla schiena di chi fosse accomodato sul gradino inferiore. A questo proposito Ovidio, negli Amores, descrive così il contatto tra spettatori (nello specifico, Ovidio si riferisce al circo, ma la situazione al teatro doveva essere decisamente similare): “Perché cerchi invano di allontanarti? La linea che separa i posti ci costringe a stare uniti. Tu però, chiunque tu sia che siedi alla sua destra, abbi riguardo per lui, che è infastidito dal contatto con il tuo fianco. Anche tu, che occupi il posto alle sue spalle, ritrai le gambe, se hai un po’ di rispetto, e non fare pressione sulla sua schiena con le tue dure ginocchia”.

In tal senso, non è affatto semplice calcolare l’effettiva capacità ricettiva degli antichi teatri, anche perché ci sono notevoli differenze fra i numeri proposti dagli studiosi. L’ipotesi più verosimile parla di circa un piede e mezzo di spazio, ossia circa 45 centimetri, in larghezza e due piedi e mezzo, ossia 75 centimetri, in ampiezza, tendenzialmente riferendosi alle misure dettate da Vitruvio. Per quanto concerne la capienza, Plinio il Vecchio riporta per il Teatro di Pompeo una capienza di 40.000 spettatori (probabilmente esagerata) e di circa la metà per il Teatro di Marcello.

LE RAPPRESENTAZIONI TEATRALI

A partire dal III secolo a.C., a Roma iniziarono ad essere prodotte tragedie ispirate ai modelli greci, sia di soggetto mitologico che storico, scritte da autori come Livio Andronico, Nevio, Ennio e Pacuvio per l’età repubblicana e Seneca per quella imperiale. Tali tragedie erano apprezzate dal pubblico romano, ma successo ancor più corposo riscuotevano le commedie, genere in cui scintillarono i nomi di Plauto e di Terenzio, dei quali sopravvivono ancor oggi numerose opere.

Vi furono però anche dei generi autonomi, slegati dai propri “antenati greci”: si pensi ad esempio alle atellane, originarie della Campania e introdotte a Roma probabilmente alla fine del IV secolo a.C., che servivano da intermezzo o da farsa finale. La trama era caratterizzata e movimentata da intrighi, equivoci ed incidenti, con i personaggi che erano maschere fisse, tanto che spesso gli esperti avvicinano questo spettacolo a quello della commedia dell’arte ed assimilano il personaggio di Dossenus, gobbo furbo e malizioso, alla futura fortunatissima maschera di Pulcinella.

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Nel I secolo a.C. prese piede il mimo, con Decimo Laberio e Publilio Sirio: si trattava di composizioni comiche, molto frequentemente di argomento erotico, comprensive di eventi canonici come amori, matrimoni, adulteri, avvelenamenti, morti e truffe, con un pizzico di satira politica. Il linguaggio era vivace e immediato, audace e licenzioso, fino ad arrivare fin troppo spesso ad un gergo decisamente osceno. Il mimo, che comprendeva canto, danza e recitazione, era l’unico genere nel quale gli attori potevano non indossare la maschera, e spesso vi recitavano anche le donne, che talvolta su richiesta degli spettatori concludevano la loro esibizione con lo spogliarello (nudatio mimarum), come nel moderno avanspettacolo.

Nel 22 a.C. Pilade e Batillo introdussero a Roma il pantomimo, particolarmente amato da Augusto, il cui soggetto poteva essere drammatico, mitologico e storico. L’attore, che spesso era un vero acrobata, non si limitava a recitare, ma mimava e danzava accompagnato dalla musica della cetra, del flauto e dei cembali, al ritmo scandito dallo scabillum (uno zoccolo di legno, usato dai flautisti per segnare il tempo a teatro).

SPETTACOLI E CENSURA POLITICA

Tito Livio raccontava che, nel 364 a.C., per scongiurare una pestilenza, il senato romano fece venire a Roma danzatori, musici e mimi etruschi (ludiones): secondo molti storici, fu da tali rappresentazioni che ebbero origine i Ludi Scaenici.

Successivamente si tentarono varie strade per erigere edifici destinati alle rappresentazioni e abitualmente si usarono teatri provvisori; per secoli, infatti, non venne costruito un teatro stabile, a causa dell’ostilità della classe aristocratica, che non voleva strutture potenzialmente aggregatrici di insurrezioni popolari. In effetti la diffidenza da parte della classe politica senatoria verso il teatro non era del tutto ingiustificata, poiché sia ad Atene che a Roma le rappresentazioni teatrali erano ricche di allusioni politiche: succedeva cosi che gli spettacoli divenissero il pretesto per manifestazioni da parte del pubblico, che in qualche modo si sentiva legittimato con la forza del numero a esprimere senza tanti complimenti il proprio sentimento di critica o di approvazione.

A dispetto di questa prudenza, c’è da dire che comunque anche nei teatri provvisori si verificavano contestazioni, soprattutto nei periodi di maggior tensione politica, come negli anni alla fine della Repubblica, caratterizzati da continue guerre civili. È esemplificativo quanto narrato da Cicerone, che raccontò come nel teatro di Curione, affollato da un vivace pubblico, accadde un episodio che nulla aveva a che fare con la vera e propria rappresentazione scenica: “All’indomani dell’assoluzione di Valerio Messalla, accusato di brogli elettorali, il suo avvocato Ortensio, sospettato di aver comprato i giudici, si è fatto vedere al teatro. Senza dubbio egli voleva farci partecipare alla sua gioia, ma invece di questo ricevette grida, battere di piedi ed un orribile concerto di fischi. Ortensio era arrivato alla sua età senza mai averne sentito uno, ma questa volta ne ha avuto abbastanza per una vita intera”.

In una delle numerose lettere indirizzate ad Attico, fu ancora una volta Cicerone a darci notizia di un episodio avvenuto durante uno spettacolo teatrale: “Ai Ludi Apollinares, l’attore tragico Difilo ha fatto un’allusione molto pungente al nostro amico Pompeo, che è stato fatto ripetere dal pubblico mille volte. Più volte le grida dell’intero pubblico hanno accompagnato la sua voce, quando ha detto: “Verrà un tempo in cui tu gemerai profondamente sulla tua sventurata potenza!”.

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VITRUVIO E IL PROBLEMA DELL’ACUSTICA

Vitruvio, celebre architetto romano vissuto al tempo di Augusto, nel suo manuale De Architectura raccomandava, per la costruzione di un teatro, la scelta di un luogodove la voce potesse giungere leggera senza essere ostacolata e rimbalzare indietro trasmettendo all’orecchio suoni confusi”, distinguendo nel dettaglio i luoghi in dissonanti, circumsonanti, resonanti e consonanti.

A detta di Vitruvio, i luoghi ideali per il teatro erano quelli consonanti, ossia quelli dove la voce, secondata dal basso, aumentasse di volume in base all’ascesa della stessa, giungendo all’orecchio chiara e distinta: in questo modo, “si otterrà in teatro un effetto sonoro ottimale sfruttando al meglio l’effetto della voce”.

Tuttavia, quando l’acustica del luogo non era sufficiente si ricorreva ad accorgimenti tecnici, di cui lo stesso Vitruvio dava importanti accenni, che alcuni studiosi hanno ritenuto di riconoscere in alcuni teatri (come per esempio a Nora in Sardegna) dove sulla scena sono stati rivenuti grandi orci interpretati come “casse di risonanza”. In altri teatri il ritrovamento di spazi vuoti dislocati a intervalli regolari nella cavea ha fatto pensare a meccanismi artificiali per l’amplificazione della voce. Probabilmente, inoltre, anche la tettoia di legno a copertura della scena e la stessa pedana lignea del palcoscenico su cui recitavano gli attori servivano da cassa armonica.

Vitruvio affermava inoltre che bisognasse “far fare dei vasi di bronzo di dimensioni proporzionate a quelle del teatro e realizzati in modo che per effetto di percussione sonora emettano note di quarta, quinta e così via fino alla doppia ottava. Si dispongano poi questi vasi in apposite cellette situate fra i seggi del teatro, calcolandone gli effetti sonori e senza che siano a contatto con qualche parete, ma abbiano piuttosto uno spazio vuoto tutt’attorno e sopra. Si badi inoltre a disporli rovesciati e in modo che poggino su di una base a forma di cuneo di almeno mezzo piede e siano rivolti verso la scena. Di fronte a queste cellette si pratichino delle aperture alte mezzo piede e larghe due, in corrispondenza dei posti situati sulle gradinate più basse”.

Vitruvio però evidenziava come Roma non fosse particolarmente recettiva a queste regole tecniche: “Se poi vogliamo sapere dove siano state applicate queste norme, a Roma non saprei indicare nessun teatro; in compenso, ve ne sono in alcune città italiche e da molte parti in Grecia. Abbiamo inoltre anche la testimonianza di Lucio Mummio il quale, dopo la distruzione del teatro di Corinto, fece portare a Roma quei vasi risuonatori di bronzo e li consacrò come bottino di guerra nel tempio della Luna. Molti abili architetti, che costruirono teatri in piccole città, non potendo disporre di vasi di bronzo, scelsero come strumenti di amplificazione dei vasi di terracotta opportunamente disposti secondo queste regole, ottenendo ottimi risultati”.

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