Nerone musico e poeta

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NERONE MUSICO E POETA

Nella fantasia di Nerone, eccitata dall’illimitato potere, il culto di se stesso quale valente musico andò assumendo un’importanza sempre maggiore. La cosa fece scandalo non tanto in Roma, quanto nella penisola lontana dall’influenza greca, specialmente nella parte settentrionale, ed in tutte le Province occidentali dell’Impero.

Le prime esibizioni canore e musicali di Nerone furono tendenzialmente private: il quinquennio senatoriale e senechiano si prestava poco a sue esibizioni in pubblico, e gli uditori erano soprattutto gli amici intimi e i giovani cortigiani. Appena salito sul trono, però, egli fece venire a palazzo il più famoso citaredo dell’epoca, Terpino, diventandone immediatamente allievo: dopo cena, fino a tarda notte, lo ascoltava cantare, replicandone i gorgheggi dopo la lezione. Nerone aveva in effetti, per la propria voce, le cure tipiche dei cantanti di professione: essa rappresentava, per il controverso Imperatore, un patrimonio naturale da amministrare, da serbare e da accrescere.

A questo punto la domanda sorge spontanea: che voce aveva Nerone? Secondo Svetonio, una voce scarsa, corta e non chiara, velata, scura e tendente al fosco. Ora, per quanto il grande storico tenda ad essere persona di notevole affidabilità, c’è anche da dire che Nerone non doveva certo cantare a voce spiegata come nel nostro melodramma romantico; declamava semmai versi di tragedie e di poemi accompagnandosi o facendosi accompagnare con la cetra, e per tale tipo di esibizione non necessitava certa della voce che in epoca moderna si esige dai tenori, dai baritoni o dai bassi.

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Per poter dettagliare a dovere la tipologia della voce neroniana, quindi, bisognerebbe anzitutto sapere sulla musica a Roma al tempo di Nerone molto di più del pochissimo che è a portata della nostra conoscenza. Nella Roma Antica l’arte della musica era stata importata dalla Grecia, ed era perciò un misto di musica e di poesia, in cui però era quest’ultima ad avere la prevalenza. Era stata semmai la Scuola Orientale di Alessandria a complicare un po’ le cose, anche grazie alla commistione fra la musica greca e quella militare e rituale romana.

Ascoltandolo con orecchio “contemporaneo”, probabilmente l’ascolto della musica e della voce di Nerone avrebbe su di noi un effetto quasi narcolettico, o quantomeno estremamente noioso. Nerone, come musico, entusiasmava soprattutto se stesso, dedicandosi ad uno spettacolo assai eterogeneo, una sorta di contaminazione che comprendeva, oltre alla poesia e alla musica vocale, anche la danza e la pantomima, in un clima assai meno austero, per intendersi, delle tragedie di Euripide.

Il gran solista era lui, Nerone, che veniva definito “citarodico” o “aulodico” a seconda che usasse la cetra o il flauto. Il resto dello spettacolo andò perdendo importanza a mano a mano che il potere dell’Imperatore diveniva assoluto, mutandosi in dispotismo e in tirannia, fino a quando anche il concetto stesso dell’esibizione non divenne altro che un pretesto. Dalle notizie che ci restano si desume che Nerone, dopo essersi servito nei primi anni di artisti celebri, si circondò quindi di artisti mediocri e infine di veri e propri “cani”, in modo da poter godere di tutta la luce dei riflettori.

Nerone era evidentemente un musico megalomane. Ignoriamo i suoi poemi, di cui è giunto fino a noi qualche verso sperduto, e soprattutto la maniera in cui suonava e cantava o declamava, ma è certo che egli facesse impressione sui suoi contemporanei e ne faccia ancora sui posteri: di Nerone si sono infatti occupati vari compositori per farne il protagonista di un’opera, da Monteverdi a Boito fino a Mascagni. La personalità di Nerone musico e poeta doveva essere davvero tonante: sembrava di avvertire in lui la superbia della tecnica rinnovata fino all’astruso, la presunzione e l’infatuazione dell’artista rivoluzionario, la follia del musicista per cui tutto al mondo è musica e nient’altro che musica. Il fatto è che la musica del tempo di Nerone, e quindi per riflesso anche la musica di Nerone, restava rudimentale, priva di armonia e di vera melodia, fondata per giunta solamente su cinque note suonate chi sa con quale intonazione. Con tutta la sua audacia di idee, Nerone fu costretto ad arrangiarsi ed a servirsi di un’arte ancora “infantile”, forse a improvvisare come un precursore del Jazz.

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Nerone cantò per la prima volta in pubblico a Napoli, città a lui particolarmente cara perché di costumi ellenistici: vi diede più volte spettacolo di sé, dopo aver promesso solennemente di far sentire qualche cosa di aderente al gusto dei greci, cioè qualche cosa che in Roma non sarebbe stata apprezzata a dovere. Gli fu tributato un successo schietto, almeno da parte del pubblico napoletano e di certi mercanti egiziani, gente che risultava quasi lusingata dal filoellenismo dell’Imperatore.

Quale fosse il suo repertorio in quel di Napoli, gli storici non ne danno notizia: Svetonio si limita a parlare di una sontuosa claque costituita da un folto gruppo di adolescenti dell’ordine equestre e di giovanotti della plebe, tutti ben ricompensati, che facevano partire gli applausi che poi si diffondevano al popolo.

La musica alessandrina tendeva ad un’espressione ricca e raffinata, all’erotico e al patetico dolente che proprio dell’erotico è spesso effetto indiretto: era quindi una musica di tragedia volta in melodramma. Nerone, come accennato, si sarà riservato i pezzi di maggior spicco, degni dell’Apollo reincarnatosi in lui, e rifiutando il primitivo genere diatonico si sarà ingegnato di mescolare i generi musicali, con improvvisazioni composite e barocche, contaminazioni ed arrangiamenti spesso infecondi, nei quali la musica, più che evolversi, si dissolveva.

Dove cantò Nerone, nel corso della sua vita? A Roma, l’Imperatore cantò dapprima nei suoi giardini, aperti però a chi volesse andarlo ad ascoltare. Approdò poi a veri e propri spettacoli privati, destinati ad un pubblico accuratamente selezionato, ed infine nei teatri pubblici. Erano tendenzialmente parti di tragedia: Oreste matricida, Edipo cieco, Ercole furioso, Niobe, Danae partoriente. Nerone cantava spesso mascherato, con l’effigie di un eroe o di un dio (ma anche di un’eroina o di una dea): la maschera tragica gli serviva certo a ingrossare e ad ampliare la voce, come accade con il microfono ai cantanti odierni, esaltando i pregi della sua voce e celandone quanto più possibile i vizi. Nella maschera la gola di Nerone si inteneriva e le emissioni divenivano singhiozzanti, acquistando quella flebilità che tanto piaceva alla folla, mentre il cuore di Nerone si commuoveva e la voce si stemperava nel pianto.

Le sue stagioni trionfali furono quelle del viaggio in Grecia, e precisamente in Acaia, che secondo gli storici antichi venne compiuto soprattutto per amore della musica, mentre gli storici moderni vedono in questa tournee ben altri motivi e ragioni. In Grecia Nerone prese parte a ogni gara di canto, e le vinse tutte, comprese quelle olimpiche: non difficile, non avendo alcun rivale. La situazione, durante le sue esibizioni, era ai limiti dell’inverosimile: mentre egli cantava, ad esempio, non era consentito a nessuno di lasciare il teatro, nemmeno alle donne prese dalle doglie.

Tornato dalla Grecia a Napoli e a Roma, trionfò in veste di Apollo e fece coniare le monete in cui lo si vede effigiato come citaredo. Se poi doveva arringare le truppe, faceva parlare un sottoposto, per non sciupare la propria voce: già solo questo dettaglio basterebbe da solo a spiegare la ribellione delle legioni stanziate in Gallia, che quando toccavano una di quelle monete andavano letteralmente in bestia.

A differenza di tutti i suoi predecessori, infatti, Nerone non fu mai un soldato e non sentì mai la convenienza di assumere sul campo il comando delle legioni; egli non compì nemmeno una spedizione parodistica come quella di Caligola in Britannia, Ciò non significa che non avesse una politica estera fondata sull’addestramento degli eserciti e su una concezione strategica: significa semplicemente che non amava portare armi, combattere, vincere e trionfare se non sulle scene.

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Forse è anche per questa idiosincrasia da parte dell’ambiente militare che Nerone fu così osteggiato da una parte della popolazione, nonché dileggiato dai posteri. Quando Svetonio affermò che “dalla torre di Mecenate egli stette a contemplare l’incendio, lieto di tanto fiammeggiare, e cantò nel suo abito scenico la bellezza della presa di Troia”, probabilmente nemmeno lo stesso storico credeva alle proprie parole. Eppure, seppur con ogni probabilità falsa o quantomeno iperbolica, questa scena fa giganteggiare la figura di Nerone musico ed attore, esaltandone la leggenda: in Nerone musico si percepisce l’ambizione, la megalomania, l’utopia e l’impotenza di una musica antica, fatta di voci soliste eleganti, che stava venendo lentamente sopraffatta dalle esigenze del culto cristiano, con il canto corale degli umili devoti.

Era una carriera difficile quella dei musicisti, all’epoca di Nerone. Se il Satyricon, come probabile, è opera dello stesso Petronio di cui parla Tacito, ossia quel Petronio che fu arbitro di eleganza alla corte di Nerone, l’opera in questione è anche una satira della musica e dei musicisti dell’epoca, di quegli innumerevoli suonatori, cantanti e declamatori, presi invariabilmente a sassate e a lanci di uova per le vie, nei Fori e nelle Terme, ossia dovunque provassero ad esibirsi. La plebe, evidentemente stufa di un vezzo causato dalla passione musicale dell’Imperatore, reagiva con rabbia sfogandosi sui suoi imitatori, non potendosi sfogare direttamente su di lui e anzi essendo costretta ad acclamarlo.

La sensazione che si ha nell’immaginare Nerone durante il viaggio di andata in Grecia, il soggiorno in Acaia, il ritorno con la sosta a Napoli, è quella di un Imperatore ormai del tutto deluso dalla politica e forse anche dalla vita, che cerchi consolazione e soddisfazione soltanto nell’arte. A Napoli, ad esempio, Nerone fu raggiunto dalla notizia della sollevazione delle Gallie, ma certo non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello di sostituire la cetra con il gladio, preferendo addirittura declamare versi burleschi in una vera e propria parodia dell’insurrezione.

Ogni sua parola era parola di tragedia, ogni suo gesto era gesto di teatro, fino alla frase “Qualis artifex pereo!” (Quale artista muore con me!) pronunciata nell’istante del trapasso, che suggellò perfettamente la sua vita e la storia della sua esistenza. Parole sgorgate poco prima del sangue, quasi col sangue, simili al lamento musicale di una cetra spezzata, al fine di interpretare un finale che nessun drammaturgo avrebbe mai potuto sostituire con uno migliore di sua invenzione.

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