L’arte dei barbari

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L’ARTE DEI BARBARI

Bar-ba-ros per gli antichi Greci era “colui che balbetta”: si trattava quindi di una parola onomatopeica, che passò a indicare tutti coloro che non parlavano greco o che lo parlavano male, dai Persiani agli Sciti, i cavalieri nomadi che vivevano nelle immense steppe russo-asiatiche.

Sul principio, tale parola non aveva un significato spregiativo: con gli Sciti, anzi, i Greci intrattenevano persino relazioni amichevoli, attraverso i loro coloni del Ponto. È vero che questi cavalieri delle steppe avevano costumi strani e terribili, come quello di bere il sangue del primo nemico ucciso, di seppellire il morto con almeno una delle sue mogli, i suoi servi e tutti i suoi cavalli preziosamente bardati, di scotennare i nemici per fare coi loro crani artistiche coppe montate in oro, che talvolta utilizzavano per bere sangue misto a vino nel rito della fratellanza del sangue.

I Greci li vedevano però soprattutto sotto l’aspetto di ottimi clienti, perché essi adoravano gli oggetti di lusso per abbellire le loro tende di nomadi. La maggior parte di tali ornamenti se li fabbricavano da soli, intagliando artisticamente legni, cuoi per i cappucci dei cavalli, pannelli di feltro per coprire le pareti, originali mosaici di pelliccia per gli abiti, e costellando di splendide placche d’oro, ornate di curiose scene d’animali in lotta fra loro, le vesti, i cinturoni e le bardature dei cavalli. Molti pezzi, tuttavia, li ordinavano proprio ai Greci, in particolare ceramiche e vasi di fine metallo fine, scambiandoli con grano, storione e soprattutto schiavi. Il regno degli Sciti Reali, nell’Ucraina, era infatti considerato il granaio della Grecia, tanto che fu dalla Scizia che il re persiano Dario iniziò la sua lotta coi Greci, pensando di tagliar loro i viveri.

Fu proprio con le guerre persiane che il termine “barbari”, riferito con odio agli acerrimi nemici della Grecia, assunse quel senso spregiativo che nei secoli gli è rimasto incollato addosso. Così i Romani chiamarono barbari i bellicosi popoli celti sparsi fra il Medio Danubio, la Gallia, la Spagna, la Gran Bretagna e l’Irlanda, che erano riusciti a bivaccare sotto le mura di Roma e a spingersi fino in Grecia e in Asia Minore, dove avevano fondato il regno di Galazia.

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Alti, biondi e fortissimi, i guerrieri galli usavano calare in battaglia completamente nudi, come per un rito cruento, poiché gli abiti avrebbero ostacolato la magica potenza che doveva emanare dai loro corpi e paralizzare il nemico: sì cingevano solo il collo d’uno strano collare a forma di braccialetto aperto, il “torques”, al contempo gioiello e insegna di grado militare, come mostrato ad esempio dal celebre Galata Morente, esposto presso il Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini.

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Essi decapitavano i nemici vinti, per appenderne le teste come trofei nei santuari e nei boschi, che erano luoghi sacri al culto e alle magie dei druidi: tale dettaglio ricorre spesso nelle (rare) sculture celtiche, dalle forme aspramente espressive, poiché nell’arte come nella vita i Celti erano veri cacciatori di teste, ritenendo che in esse si conservasse l’anima del morto.

Soggiogati i Celti da parte di Giulio Cesare e occupata tutta la Gallia, i barbari per eccellenza divennero per Roma i popoli germanici, curioso miscuglio di Celti, Goti, Scandinavi, Franchi, Angli, Sassoni e Longobardi, che vivevano al di là del Reno e del Danubio, dando molto filo da torcere ai legionari di guardia sui confini. Rimasti per molti secoli all’arte rudimentale dell’età del bronzo, nell’epoca delle invasioni essi sapevano abbellire la loro vita rude con forme più colorite e fastose di quelle celtiche, fra cui spiccavano le fibbie per abiti ed i gioielli tutti tempestati di pietre e di paste di vetro multicolori. Quando, nel V secolo d.C., colpiti da un ritmo convulso di migrazioni che scompaginò il loro mondo dai Balcani alle Alpi, i Germani dilagarono nell’Impero Romano d’Occidente, essi introdussero il loro gusto nei nuovi regni barbarici, creando decorazioni massicce e geometriche, basate sulla sinuosa treccia barbarica.

Quanto appena accennato dimostra quanto la storia e l’arte barbarica fossero assai eterogenee nel tempo e nello spazio: centinaia di secoli e di chilometri separano infatti le tombe a tumulo piene d’oro dei ricchi capi sciti, proprietari di splendide mandrie di cavalli, dal cupo mausoleo a calotta schiacciata che il re ostrogoto Teodorico si fece erigere nella sua capitale, Ravenna. Eppure, a ben guardare, si intravedono in quest’arte così disgregata alcuni elementi di unitarietà, le cui tappe, dal Mar Nero ai Pirenei al Baltico, sono ben riconoscibili.

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Si parte dagli Sciti e dalle loro figure di animali e di mostri disegnate con incisiva purezza o lavorate al traforo, che drappelli di mercenari nomadi diffondono fino tra i Celti e gli Scandinavi. Più tardi, attraverso nuovi conquistatori delle steppe, ossia i nomadi Sarmati e i germanici Goti, originari della Scandinavia, i vecchi motivi sciti si arricchiscono con pietre incastonate e smalti intarsiati: così le fastose fibbie germaniche a forma di aquila o di uccello derivano dagli uccelli rapaci sciti, pei quali i Goti ebbero un amore speciale, mentre i mostri e i grifoni che ornano le prore di navi degli Scandinavi sono figli degli animali immaginari che gli Sciti presero a prestito dai loro vicini, i Persiani.

Unitaria nella sua varietà, l’arte barbarica ebbe anche effetti consistenti su quella europea: questi popoli, considerati non civilizzati ma artisticamente ricchi di un’originale fantasia creativa, si svilupparono in un grande arco alle spalle del mondo classico, finché con le invasioni portarono, come ha scritto lo storico francese Albert Grenier, “la preistoria nella storia”. Dalla fusione dell’arte classica col loro stile espressionistico e colorito nascerà un giorno, nell’Europa rinnovata, l’arte romanica e gotica.

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Dalla preistoria al Medioevo, quindi, questi barbari si son passati l’un l’altro la fiaccola di un’arte in apparenza decorativa, preoccupata solo della linea geometrica, della forma sintetizzata in ornamento e della materia sfavillante, ma sostanzialmente assai espressiva, tutta intessuta di simboli magici e mitologici, che richiedevano agli artisti un’approfondita conoscenza dei valori religiosi e sociali. Non per nulla, presso i Celti e i Germani, i fabbri e gli orefici erano personaggi d’alto rango e potevano diventare perfino consiglieri del re. Raffinata e violenta come i suoi creatori, l’arte barbarica vuole esprimere non l’universo sereno del mondo classico, dominato dall’uomo e dalle leggi della logica, ma il mondo inquieto dei barbari nel quale le forze irrazionali della natura, l’angoscia della sopravvivenza legata al prosperare delle greggi ed alla forza delle armi non si possono tradurre in forme realistiche, ma solo in simboli e allusioni.

Le combinazioni di linee geometriche cercano infatti di tradurre graficamente l’intricato pulsare di forze invisibili: l’artista non traccia queste decorazioni a caso, solo per abbellire l’oggetto, ma con un programma di scongiuro, per attirare su chi lo usa o lo impugna forza e protezione. Anche il fulgore prezioso degli ori e delle gemme non serve tanto a dar gioia agli occhi, quanto a irradiare un senso di potenza della materia. I barbari, che non ebbero una storia scritta e che usarono la loro rudimentale scrittura, ossia i caratteri runici, solo per brevi formule magiche, hanno scritto in questi intrichi di forme i messaggi segreti delle loro vicende.

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Anche certi miti greci si chiariscono attraverso questa scrittura senza lettere che fu l’arte barbarica. Che Giasone e gli Argonauti siano andati nel Ponto, cioè nella Scizia, a cercare il vello d’oro non fa più meraviglia, dopo la scoperta di una civiltà nomade tuffata nell’oro e nelle favolose pellicce a mosaico. E persino la favola delle Amazzoni, le vergini guerriere, diventa credibile, da quando a Tiflis, fra i resti della civiltà sarmatica, è stata scoperta la tomba di una donna guerriera con le sue armi: secondo la tradizione, infatti, le donne dei Sarmati, infatti, cavalcavano e combattevano accanto agli uomini, e non potevano sposarsi finché non avessero ucciso almeno un nemico.

Così pure la saga nordica di Sigfrido acquista tinte nuove attraverso l’arte germanica. Nel poema dei Nibelunghi, infatti, le gesta di Sigfrido sono ambientate sullo sfondo del Reno, che è una zona celtica e franca, ma non c’è traccia di arte celtica in questo mito, mentre la scena dell’eroe che uccide il drago o che entra nel Walhalla, il paradiso dei guerrieri, è diffusissima nell’arte nordica, specie in quella scandinava. Inoltre la saga è tutta imperniata sul possesso dell’oro del Reno, ma l’oro abbonda, ancor più che nelle tombe a carro dei guerrieri celti, in quelle a nave dei re pre-vichinghi, in quelle a camera degli Sciti e dei capi goti e bulgari della Balcania. Tutta d’oro era ad esempio la corazza del goto Teodorico, rubata a Ravenna e mai più ritrovata: l’oro del Reno, dunque, è solo un simbolo dei tesori favolosi che caratterizzavano la società barbarica.

Oggi di questi tesori resta ben poco: i successori dei barbari hanno saccheggiato le tombe e fatto man bassa dei metalli preziosi, Ma quelli a nostra disposizione permettono comunque di avere un’idea chiara sul livello qualitativo delle loro decorazioni.

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I nomadi delle steppe: i cuoi laminati d’oro

Al re Dario, che gli rimproverava la tattica esasperante di ritirarsi lentamente senza mai accettar battaglia, il re degli Sciti Reali rispose: “i Persiani non c’interessano, ma provatevi a toccare le nostre tombe, e vedrete se non ci fermeremo a combattere”. Era infatti alle tombe che gli Sciti dedicavano tutta la loro attenzione, così come avevano già fatto anche i Cimmeri, i mongoli Unni e infine i nomadi della Siberia, presso le cui miniere proprio i capi Sciti si rifornivano. Tutte queste genti non avevano templi e vivevano in tende mobili o sui carri dell’emigrante, ma scavavano nel terreno tombe a camera coperte di tumuli di terra, seppellendovi i capi e i notabili, coricati in una bara intagliata e circondandoli di tutto quel che avevano posseduto in vita: esseri umani, cavalli splendidamente bardati, abiti, oggetti preziosi.

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I lavori in metallo pregiato provengono soprattutto dagli enormi tumuli della Scizia Reale e da quelli del Kuban, sul Mar Nero: oltre alle placche per abiti e alle tazze da vino, vi sono caldaie decorate per bruciare i narcotici ricavati dai semi di canapa, molto usati col pretesto dei riti di purificazione, e abbondano gli specchi ornati di animali, che erano considerati dai nomadi una sorta di talismano in grado di allontanare le sventure e gli spiriti maligni.

Gli abiti ricamati, i feltri e i cuoi intagliati con lamine d’oro per le bardature, le coperte per le pareti si sono conservati assai meglio nelle tombe ghiacciate di Pazirik sull’Altai, vere camere frigorifere al limite dei pascoli estivi. Vi si è trovata tra l’altro una serie di cappucci per cavalli, con strane corna, che forse servivano a mascherare il cavallo facendogli assumere sembianze di cervo, l’animale sacro dell’antica Siberia che trasportava nell’al di là i defunti.

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I Celti: la luna sulle monete

Anche i Celti, come gli Sciti e i Germani, coprivano le tombe con tumuli, ma essi deponevano i morti nei loro carri di battaglia, gloriose bare di una valorosa stirpe guerriera. Il protagonista della vita celtica era infatti l’eroe, il campione della tribù, che calava in battaglia fornito delle armi più pregiate e decorate: la sua memoria doveva essere eternata dagli scultori con statue e con teste dall’espressione concentrata e intensa.

Al di sopra dei guerrieri però, quale vero tessuto connettivo della società celtica, erano i druidi, ossia i sacerdoti: con danze e riti cruenti, anticipatori della stregoneria medievale, essi amministravano una religione costellata di dei tribali e basata sui culti notturni e lunari. Proprio la luna, ritenuta la madre dei cicli di vegetazione e riproduzione, spunta col suo simbolo più canonico, il crescente, sulle monete galliche, coniate sull’esempio di quelle greche, ma coperte di segni astrali e cieli stellati.

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L’arte celtica è quindi aristocratica ed esoterica, con gli artisti a rappresentare una classe privilegiata, al servizio dei druidi e dei guerrieri. La battuta iniziale di questa civiltà si trova nell’arte della prima età del ferro, detta di Hallstatt da una necropoli dell’Austria: vi compaiono vasellami di metallo, i primi torques, finimenti molto simili a quelli Sciti, e nelle ricche tombe renane anche l’oro, i coralli e soprattutto l’ambra, il vero oro del Nord, che veniva dal Baltico. Le abitudini erano già raffinate, perché si trovano pinze per depilare e rasoi, ma le decorazioni erano semplici, formate da combinazioni di linee rette.

La vera arte celtica però è quella cosiddetta di La Tène, dal nome di una località della Svizzera, diffusasi dal Reno alla Spagna fra il V secolo a.C. e la conquista da parte di Cesare: essa è caratterizzata da smalti raffinati e da ornati sinuosi, e si conserva in tutta la sua purezza in Irlanda, isola non toccata dalle invasioni romane e barbariche. Tale arte verrà inglobata dai monaci cristiani, che nelle pagine dei loro tomi religiosi fondevano in policromi intrichi le volute di La Tène coi grovigli di animali degli Scandinavi, legando le braccia delle grandi croci scolpite con l’antica ruota solare celtica.

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I Germani: gli archi a ferro di cavallo

In tempo di pace i guerrieri nordici erano soprannominati “affumicati” perché, rimanendo a lungo nelle grandi sale dei banchetti, dotate di sfoghi insufficienti per il fumo, la loro pelle assumeva una pigmentazione scura. Le più celebri architetture dei Germani erano infatti le “halls”, cioè i padiglioni reali in legno per le riunioni e i conviti, con il focolare posto al centro delle stesse. Le più sontuose fra esse avevano il letto a sella di cavallo con colonne intagliate e un’apertura al centro sopra il focolare: il modello si è conservato nelle chiese in legno medievali della Scandinavia e dell’Ucraina.

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Quando i Germani si affacciarono all’Europa civile (i Visigoti in Spagna, gli Ostrogoti e i Longobardi in Italia, i Franchi Merovingi in Francia), impararono dai popoli conquistati ad adorare Gesù Cristo e a costruire grandi chiese in pietra, talvolta con decorazioni “alla bizantina” ma ben più spesso contrassegnate da membrature rudi, con grandi archi a ferro di cavallo, archetti triangolari, denti di sega, trecce e altri motivi geometrici del repertorio barbarico.

Al contempo, però, anche i Germani insegnarono qualcosa ai popoli conquistati: essi erano infatti maestri assoluti della metallurgia ed esperti gioiellieri, cosicchè anche gli oggetti liturgici adottarono il nuovo gusto di magnificenza barbarica, così lontano dalla semplicità dei primi Cristiani. Basti pensare, in tal senso, allo splendido tesoro della regina longobarda Teodolinda nel Duomo di Monza, con la Corona di Ferro, le corone votive, i reliquiari e le sontuose croci longobarde.

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Gli Scandinavi: le navi sepolcro

Con l’espressione “Scandinavi” si intendevano i Germani dell’estremo nord: in tal senso, volendo fare una comparazione metaforica, i Vichinghi del IX secolo sono un po’ gli Aztechi della Scandinavia, considerato che raccolsero una lunga tradizione e la vivificarono in forme nuove.

È presso i Vichinghi che culmina il culto di Odino, dio della guerra e della conoscenza: spesso sui medaglioni d’oro il suo cavallo ha le corna, in omaggio al vecchio culto di Thor, dio del cielo e dei contadini, che aveva per simbolo un capro. Thor, Odino e Frey, l’antichissimo dio dell’amore, erano adorati nel grande santuario dei popoli scandinavi di Upsala, formato da un bosco sacro e da un tempio di legno col tetto conico, tutto coperto d’oro: nelle festività vi si compivano sacrifici cruenti e pantomime rituali, simili agli antichi misteri pagani, in cui i sacerdoti sì travestivano per rappresentare scene dei miti nordici.

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Queste scene, con Odino a cavallo, Thor con il martello spaccagiganti ed il leggendario Walhalla, sono riprodotte sulle pietre funebri e sulle placche di bronzo che ornavano gli elmi e le spade, trovati nelle tombe. Dapprima i morti erano cremati e sepolti in tumuli, ma a partire dal VII secolo, col fiorire delle corti svedesi, si cominciò a seppellire il cadavere con l’armatura in una nave, nascosta anch’essa sotto un tumulo.

L’uso di queste navi sepolcro culminò coi Vichinghi: si credeva infatti che la nave trasportasse il morto nel Walhalla. I Vichinghi, cioè gli abitanti dei “vik”, le insenature dei mari nordici, noti in Europa come temibili pirati, usavano per sepolcri non le lunghe navi da guerra o le corte navi corsare, ma eleganti battelli da turismo, come la nave di Oseberg, sepolcro della regina Asa, che fu la nonna di Harald Bellachioma, l’unificatore della Norvegia. Le prore recavano la testa di un mostro digrignante, per cacciare gli spiriti maligni durante la navigazione, mentre i bordi delle navi, ma anche i carri e le slitte, erano intagliati con movimentati intrecci a catena formati da uno strano animale azzannante, miscuglio di cane, orso e leone.

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