LA SAGA DEGLI ARGONAUTI
Tradizionalmente, l’inizio dell’epoca moderna viene fatta coincidere dai libri scolastici con il viaggio di Cristoforo Colombo che portò alla scoperta delle Americhe. Nella mitologia greca, fu un altro viaggio leggendario a fare storia: si tratta dall’impresa d’oltremare degli Argonauti, un gruppo di eroi partiti dalla loro patria greca verso il Caucaso alla conquista del vello d’oro di un mitico ariete, il cui simbolo sarebbe stato destinato a figurare sul petto dei Duchi di Borgogna alcuni millenni più tardi, con il nome di Toson d’Oro, il supremo ordine cavalleresco fondato a Bruges da Filippo il Buono il 10 gennaio 1429, in occasione delle sue nozze con Isabella di Portogallo.
Se ci si pensa, l’oro si adatta bene ad entrambe le spedizioni: sia a quella verso l’America, che consentì alla Spagna di impossessarsi di quantitativi imponenti del prezioso metallo, sia a quella verso il Caucaso che permise ai greci di riconquistare la favolosa pelle d’oro.
È evidente che l’eroica impresa che conduce l’avventuriero in una lontana terra misteriosa al fine di contendere ad un mostro meravigliosi tesori sia familiare a chiunque abbia letto, da bambino, anche un solo libro di fiabe. L’impresa di Giasone, che guidò i suoi compagni sulla nave Argo dalla Grecia alla Colchide per conquistare l’aurea pelle di ariete custodita da un drago, è ovviamente molto simile a quella degli eroi delle fiabe. Essa tuttavia fu per gli antichi Greci una storia vera e sacra, una sorta di impresa eroica esemplare; rischiando la propria vita sul mare ed affrontando pericoli sconosciuti, i navigatori Greci avevano la sensazione di ripetere la remota esperienza di Giasone e dei suoi compagni.
La storia degli Argonauti è più antica di quella dell’assedio di Troia e dell’avventuroso viaggio di Ulisse, così magistralmente narrati nell’Iliade e nell’Odissea; le vicende degli Argonauti, infatti, venivano tramandate dai canti e dai poemi prima ancora delle opere omeriche. Questa anteriorità sembra confermata dalle genealogie tradizionali del mito: gli eroi della spedizione in Colchide appartengono infatti tutti alla generazione precedente a quella dei vincitori di Troia.
Il quadro dell’avventura degli Argonauti è quello del Mediterraneo negli anni di maggiore grandezza della civiltà micenea, ossia nell’ultima fase dell’Età del Bronzo: i principali centri micenei avevano ormai raggiunto con le loro navi quasi tutte le isole e le coste mediterranee, mentre i manufatti micenei erano venduti in tutti i mercati. All’epoca, viaggiare sul mare rappresentava pur sempre un pericolo, poiché una tempesta o uno scoglio potevano essere micidiali, ma i navigatori micenei affrontavano ormai quotidianamente quei rischi superando abilmente ogni difficoltà.
LA SEDE DEL VELLO D’ORO
Nella mente di viaggiatori e navigatori, però, continuava a restare ben impresso il sogno di una terra misteriosa, quel favoloso Oriente che assillerà per secoli gli spiriti più avventurosi della vecchia Europa. Era proprio in Oriente che, per gli antichi Greci, veniva conservato il Vello d’Oro, e specificamente nella Colchide (regione costiera del Mar Nero corrispondente all’attuale Mingrelia), all’interno dell’abitazione del Sole guardata a vista da un potente drago.
La tradizione mitica, però, raccontava che il Vello d’Oro non si trovasse in Oriente dall’inizio dei tempi, ma che bensì vi fosse giunto dall’Occidente. Atamante, fondatore di Alos in Tessaglia e re di Beozia, ebbe dalla dea Nefele (il cui nome significa nuvola) due figli: Frisso “il ricciuto” ed Elle “la cerbiatta”. Atamante, tuttavia, abbandonò Nefele a cui preferì una donna mortale; la dea, a quel punto, manifestò allora la sua gelosia inviando sul mondo una terribile siccità. Per far cessare quella calamità si sarebbe dovuto sacrificare il primogenito di Atamante, Frisso, ma Elle volle essere sacrificata con il fratello. La loro morte rituale fu tuttavia evitata grazie ad un ariete dal pelo d’oro di origine divina, che viveva confuso nelle greggi del re: quando giunse l’istante del sacrificio, l’ariete parlò a Frisso e ad Elle, li fece salire sulla propria groppa e volò verso Oriente salvando i due giovani.
Sopra lo stretto che separa l’Europa dall’Asia, cioè lo Stretto dei Dardanelli, Elle cadde però nel mare e così celebrò le sue nozze con il dio marino Poseidone. Da allora quel tratto di mare si chiamò “mare di Elle”, ossia l’odierno toponimo Ellesponto. Frisso invece proseguì il viaggio sull’ariete dalla pelle d’oro e giunse nella Colchide, casa stessa del Sole e terra di Eete, figlio del Sole. In quel luogo l’ariete fu sacrificato e Frisso donò la sua pelle aurea ad Eete, che la appese ad una quercia nel santuario di Ares e la fece custodire da un drago.
GIASONE
L’eroe destinato a guidare un gruppo di Greci alla riconquista del tesoro, Giasone, era un discendente di Frisso: suo nonno, Creteo, era infatti fratello di Atamante e zio di Frisso.
A volerla esaminare con attenzione, l’impresa argonautica può essere considerata sotto un duplice aspetto: da un lato essa rappresenta l’espansione micenca verso il Caucaso (ove si colloca la Colchide), dall’altro come simbolica raffigurazione del rituale di iniziazione degli adolescenti, ai quali le fondamenta sacrali della società imponevano di penetrare nell’Aldilà al fine di tornare con il tesoro di forza e di conoscenze custodito dai morti. La Colchide infatti è un’immagine del regno della morte, da cui il sole sorge nel suo cammino di ogni giorno e ove ritorna ogni notte.
L’avventuroso viaggio degli eroi greci verso la Colchide equivaleva dunque a una calata negli Inferi: non per altro esso si realizzò sul mare, poiché le onde marine, pronte sempre ad aprirsi ed a imprigionare i naviganti nell’Aldilà, rappresentavano il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. Tale impresa doveva restare decisamente misteriosa, come dimostrato dalla stessa Circe che, nel XIII canto dell’Odissea, narrò con molta reticenza ad Ulisse il viaggio argonautico.
In passato la maga aveva già istruito, allora parlando senza alcuna remora, gli Argonauti sul cammino da seguire, quando essi si soffermarono nella sua isola. Nel Bosforo, soglia del mondo infero, si trovavano infatti due gigantesche rocce mobili che cozzavano fra loro stritolando ogni cosa, incluse le navi di passaggio. Ascoltando il consiglio di Circe, gli Argonauti riuscirono a far passare impunemente la loro nave tra quelle rupi micidiali, ricorrendo a un espediente che rievocava antichissimi miti. Le colombe che recavano l’ambrosia (cibo divino destinato a Zeus) passavano fra le rocce mobili, ma molto spesso l’ultimo di quegli uccelli veniva stritolato; gli Argonauti quindi, giunti in prossimità delle mastodontiche rocce, fecero volare fra di esse una colomba e, non appena le rocce cozzarono fra loro per poi riaprirsi, fecero inserire velocemente la nave Argo nello stretto passaggio.
LA NAVE ARGO
Il vascello degli Argonauti, d’altronde, era la nave più straordinaria del tempo, l’unica in grado di procedere sui cammini di solito vietati ai mortali. Si chiamava Argo, ossia “la veloce”, e nella sua struttura fabbricata con i pini del monte Pelio erano state inserite anche assi di legno proveniente dalle sacre querce di Dodona, uno dei più antichi santuari oracolari della Grecia. Secondo la leggenda, proprio a Dodona, in un angolo sperduto dell’Epiro, le querce manifestavano con il fruscio dei loro rami la volontà dell’oracolo: pertanto, proprio grazie alla presenza del loro legno, la nave Argo fu dotata della parola.
Il richiamo a Dodona pone l’avventura argonautica nella prospettiva storica della più arcaica religiosità greca: a Dodona, infatti, i primi Greci trovarono il culto di un’antica divinità indigena, una grande dea della montagna, delle fonti d’acqua e degli Inferi, cui assimilarono le proprie credenze, in una sorta di sincretismo religioso. Era quindi giusto che il “legno parlante” delle querce di Dodona accompagnasse i figli gli Argonauti nel grande viaggio che avrebbe aperto al mondo greco la via verso il Caucaso e l’Oriente.
Veniva così anche consacrata l’arte del navigare, cui la civiltà greca dovette tanta parte del suo sviluppo: la nave Argo era difatti venerata nelle tradizioni più antiche come il prototipo mitico di quei vascelli su cui i Greci avrebbero diffuso la loro lingua, i loro costumi e i loro manufatti in tutto il Mediterraneo, e su cui avrebbero difeso la propria libertà nelle lotte con le potenze d’Oriente.
I PRINCIPALI ARGONAUTI
ACASTO: figlio di Pelia e re di lolco, partecipò all’impresa argonautica. Più tardi ospitò alla sua corte Peleo (futuro padre di Achille). La moglie di Acasto tentò Peleo e poi lo accusò diaverla insidiata: Acasto le credette e volle uccidere Peleo, ma quest’ultimo venne salvato dal centauro Chirone e successivamente si vendicò, uccidendo Acasto assieme alla moglie.
ADMETO: re di Fere in Tessaglia e sposo di Alcesti. Quando venne l’ora della sua morte, ottenne dagli Dei che un altro potesse scendere agli Inferi al posto suo, ma solo la moglie Alcesti accettò di sostituirlo. Quest’ultima fu poi strappata al regno dei morti da Eracle.
CASTORE E POLLUCE: figli gemelli di Zeus e di Leda, vennero detti i Dioscuri, divinità eroiche protettrici. La loro presenza nell’impresa marina degli Argonauti si ricollega alla loro funzione di protettori dei naviganti. Castore era famoso come domatore di cavalli, mentre Polluce era un celebre pugile. Dopo molte imprese mitiche ottennero finalmente dal padre Zeus il privilegio di poter trascorrere un giorno sulla Terra e uno nell’Ade.
ERACLE: uno dei più celebri eroi divini greci. L’impresa degli Argonauti, che andava a sommarsi alle sue celebri “fatiche”, si addiceva perfettamente alla sua natura di prototipo dell’eroismo ellenico: la straordinaria forza fisica di Eracle coincideva infatti con la sua capacità di penetrare nei regni della morte, come previsto dalle antiche cerimonie iniziatiche.
GIASONE: figlio di Esone, re di Iolco, è il capo degli Argonauti. Educato dal centauro Chirone, apprese da lui le virtù che gli permisero di conquistare il Vello d’Oro.
MELEAGRO: re degli Etoli, figlio di Eneo e di Altea. Al ritorno dalla spedizione argonautica, partecipò alla caccia del cinghiale mandato da Artemide a devastare le sue terre insieme ad altri Argonauti, fra cui Acasto e Atalanta (una ninfa anch’ella partecipe della spedizione argonautica). A quest’ultima Meleagro offrì le spoglie del cinghiale da lui ucciso, suscitando una contesa in cui egli stesso trovò la morte. La caccia del cinghiale è simbolo dell’iniziazione, così come la lotta col drago e la conquista del Vello.
MOPSO: indovino, figlio di Ampico e di Clori. Morì al ritorno dal viaggio argonautico a causa del morso di un serpente, nel luogo dove poi sorse Cartagine.
NAUPLIO: re di Eubea, eponimo della città di Nauplia. Suo figlio, Palamede, partecipò alla guerra di Troia e venne leggendariamente considerato inventore dell’alfabeto.
ORFEO: il massimo cantore sacro della mitologia greca, figlio di Eagro. Perduta la sposa Euridice, ottenne dagli Dei inferi di ricondurla sulla Terra, a patto di non voltarsi mai a guardare la donna durante tutto il percorso ma, avendo disobbedito, la riperdette per sempre. Morì dilaniato dalle Baccanti. Una tradizione posteriore ne fece il protagonista dell’Orfismo, una delle religioni misteriche dell’Antica Grecia, le cui caratteristiche iniziatiche rispecchiavano proprio il mito argonautico.
LE IMPRESE DEGLI ARGONAUTI
Giasone, defraudato da Pelia del regno di lolco, chiese a Pelia di spartire con lui la sovranità. Pelia si dichiarò d’accordo, ma prima impose come condizione a Giasone di riportare dalla casa di Eete, nella Colchide, l’anima di Frisso e il Vello d’Oro.
Venne a quel punto costruita la nave Argo, dalla quale presero per l’appunto nome gli Argonauti. Alla spedizione parteciparono eroi di tutta la Grecia: Eracle, Castore e Polluce (figli di Zeus), Eufemo di Tenaro e Periclimeno di Pilo (figli di Poseidone), Nauplio, Idas, Linceo, Orfeo, il cantore Filammone (figlio di Apollo), Echione, Erito e l’araldo Antalide (figli di Ermes), il re di Elide Augia, Calais e Zete (figli di Borea), l’indovino Mopso, Peleo e Telamone, Admeto, Acasto, Meleagro e Atalanta, Teseo e Piritoo.
La nave Argo approdò inizialmente a Lemno, isola occupata da sole donne che avevano ucciso tutti gli uomini: gli Argonauti si accordarono con le donne di Lemno e celebrarono nozze con esse. Nelle vicinanze di Lemno, in Samotracia, Giasone, i Dioscuri, Eracle e Orfeo vennero iniziati ai misteri.
Dopo aver passato l’Ellesponto, gli Argonauti approdarono a Cizico e vennero accolti ospitalmente dal re omonimo, che festeggiava le proprie nozze con Clite; la nave Argo venne però assalita dai Giganti, abitatori di Cizico, che vennero prontamente sterminati da Eracle. Durante la notte gli Argonauti lasciarono Cizico, ma il vento li ricondusse nuovamente verso la costa, dove vennero assaliti dagli abitanti di Cizico che non li riconobbero nell’oscurità: in questo erronea zuffa, perse la vita anche il re Cizico, con gli Argonauti che si ritrovarono a piangere i caduti e a restare bloccati per dodici giorni nell’attesa della fine della tempesta.
Lasciata Cizico, Argo giunse quindi in Misia, ove Eracle dovette abbandonare temporaneamente la spedizione per andare alla ricerca del giovane Ila. Gli Argonauti arrivarono quindi in Bitinia, nel paese dei Berici: fu proprio qui che Polluce sconfisse in una gara di pugilato il re del luogo, Amico, come splendidamente mostrato nella decorazione della Cista Ficoroni esposta presso il Museo Etrusco di Villa Giulia.
La nave approdò quindi in Tracia, presso i Tini, nel luogo in cui iniziava il regno delle tenebre. Il re dei Tini, l’indovino cieco Fineo, venne liberato dalle Arpie dagli Argonauti Calais e Zete e fu proprio lui, in segno di ringraziamento, ad insegnare agli eroi come trovare la via verso la Colchide e come ritornare indietro sani e salvi. Seguendo l’insegnamento di Fineo, infatti, gli Argonauti passarono attraverso le rupi di colore azzurro, mobili e cozzanti fra loro, collocate nel Bosforo, per poi affrontare il promontorio acheronteo, ove il fiume infero Acheronte sfociava in mare. Lì vennero accolti dal re Lico, ma persero per disgrazia due compagni, l’indovino Idmone e il timoniere Tifi.
Nell’isola di Tinia, gli Argonauti incontrarono Apollo esattamente nell’istante in cui il dio della notte diventava dio del giorno: per questo motivo, essi consacrarono l’isola stessa ad Apollo. Lasciata Tinia, gli eroi visitarono vari popoli (Mariandini, Amazzoni, Calibi, Tibareni, Mossinichi) risalendo il fiume Fasi, nella Colchide, verso la città di Ea, sede del re Eete possessore del Vello d’Oro.
La nave approdò quindi sull’isola di Ares e gli Argonauti dovettero lottare con gli uccelli del lago di Stinfalo, ricoperti di penne metalliche e taglienti. Come tappa successiva, gli Argonauti giunsero in vista del Caucaso, individuando l’aquila di Zeus e udendo il terribile lamento di Prometeo, incatenato sul monte mentre l’aquila gli rode il fegato, pronto a ricrescere ogni giorno in un interminabile tormento.
Giasone si presentò infine al re Eete, che fece gettare l’eroe nelle fauci del drago che custodiva il Vello d’Oro; Giasone riaffiorò però dalla bocca del mostro, carpendo il Vello dal suo ventre grazie all’aiuto di Medea, figlia di Eete, innamoratasi di Giasone. Ormai incapace di resistere alla sua passione, Medea fuggì con Giasone e con gli altri Argonauti, arrivando addirittura ad uccidere e fare a pezzi il fratello Apsirto per trattenere il padre nell’inseguimento.
Durante il viaggio di ritorno, la nave Argo raggiunse la casa di Circe, nella quale entrarono però solo Giasone e Medea. Superate le temibili rupi delle Sirene grazie ad Orfeo, che coprì col suo canto potente l’ammaliante voce delle sirene, gli Argonauti giunsero a Corfù, l’isola dei Feaci, dove si celebrarono le nozze fra Giasone e Medea, con il Vello d’Oro disteso sopra il talamo.
Lasciata Corfù, la nave Argo si incagliò nel golfo delle Sirti. Gli Argonauti a quel punto realizzarono la loro impresa più clamorosa, caricandosi la nave sulle spalle e trasportandola attraverso il deserto libico fino al lago Tritonis, presso il Giardino delle Esperidi. Fu allora che il dio Tritone comparve agli Argonauti, spingendo in mare la nave Argo e permettendo al gruppo di approdare a Creta, dopo che Medea sconfisse l’uomo di bronzo, Talos, il quale girava ogni giorno tre volte attorno all’isola.
Con gli Argonauti ormai in vista della patria, comparve Apollo ad illuminare loro la via del ritorno.
LE SIMBOLICHE FIGURE FEMMINILI NELLA SAGA
Come facilmente intuibile dal precedente breve riassunto, le avventure vissute dagli Argonauti prima di giungere in Colchide sono talmente numerose e complicate da non poter essere esaminate nei particolari in questo articolo del Blog di Rome Guides, ma è bene ricordarne in particolare una, particolarmente rappresentativa.
La prima isola su cui approdò la nave Argo fu Lemno, nel Mar della Tracia. Quando gli Argonauti vi giunsero trovarono una popolazione esclusivamente femminile: le donne di Lemno avevano infatti ucciso i loro mariti, colpevoli di averle tradite con amanti tracie, e nel furore della vendetta avevano massacrato ogni persona di sesso maschile. Vedendo avvicinarsi la nave, spinta da una bufera verso la costa di Lemno, le donne accorsero armate per impedire lo sbarco agli Argonauti, ma Giasone adoperò tutto il proprio carisma per riconciliarsi con la regina Ipsipile e per celebrare solennemente la loro amicizia con giochi, banchetti e nozze fra gli eroi e le donne dell’isola. Quando gli Argonauti ripartirono verso la Colchide, essi lasciarono a Lemno i figli che avevano generato con le abitanti dell’isola: Giasone, ad esempio, ebbe da Ipsipile Eveno e Toante.
L’immagine di una popolazione di sole donne ricorre con una certa frequenza nelle tradizioni mitiche e soprattutto nelle loro sopravvivenze fiabesche e letterarie: si pensi alle Amazzoni, talmente tanto radicate nella cultura classica che i primi europei giunti nell’America del Sud dissero di aver incontrato popolazioni indigene femminili che chiamarono per l’appunto “Amazzoni” proprio per analogia con il mito greco (da esse prese ovviamente nome l’Amazzonia).
Il mito delle donne di Lemno, assassine dei loro mariti e poi spose degli Argonauti, lega però a queste memorie leggendarie e mitologiche il ricordo di alcuni elementi della più antica religiosità greca. I primi Greci venerarono infatti l’immagine di una donna divina, che elargiva la vita e la morte: partecipare al suo culto significava conoscere la morte al fine di trarne la vita. Più tardi, tuttavia, quando questa religiosità non fu più compresa nella sua integrità, questa donna divina che elargiva la morte venne intesa. come malefica e assassina. Sorse così il mito delle donne di Lemno, assassine dei loro mariti. Gli Argonauti rappresentarono, nei confronti di quelle donne malefiche, l’apporto della religiosità nuova: essi riuscirono a placare le donne e a celebrare le nozze con loro.
Anche lo stesso Giasone deve gran parte del proprio successo a una donna. Quando Giasone dovette conquistare il Vello d’Oro custodito da un drago, egli riuscì infatti nell’impresa grazie all’aiuto di Medea, figlia del re della Colchide Eete, che si innamorò di lui. Secondo la versione tradizionale Medea, esperta nelle arti magiche, fabbricò un filtro soporifero e lo spruzzò negli occhi del drago, il quale cadde in letargo e non poté difendere il tesoro.
Anche Medea era però, in un certo senso, una donna malefica, come le abitatrici di Lemno. Si pensi all’accennato espediente che le permise di assicurare la fuga degli Argonauti con il Vello d’Oro: Eete, infatti, si lanciò all’inseguimento dei ladri del tesoro, ma Medca, per trattenerlo, fece a pezzi il proprio fratello Apsirto e ne gettò dietro di sé le membra dilaniate. Eete, stravolto dal dolore, si fermò a raccogliere le spoglie del figlio e gli Argonauti poterono fuggire indisturbati.
Non fu però l’unico “atto criminale” che vide protagonista Medea: la donna si rese infatti colpevole anche di altre uccisioni, che riflettono tutte la sua originaria natura di dea elargitrice di morte. Quando essa giunse a Iolco con Giasone, si vendicò atrocemente di Pelia, che aveva inviato Giasone all’impresa pericolosa e aveva usurpato il di lui regno. Medea convinse infatti le figlie di Pelia ad essere sue complici in un rituale che avrebbe dovuto ringiovanire il vecchio re. La maga squartò un ariete, lo fece cuocere in un calderone, e dal calderone risorse un giovane agnello. Il medesimo rito fu compiuto su Pelia, ma con ben altre conseguenze: il vecchio re venne fatto a pezzi dalle figlie e cotto nel calderone, ma non tornò più in vita.
Il volto oscuro di Medea si manifestò in modo egualmente drammatico più tardi, quando essa, compagna di Giasone a Corinto, si vide tradita dall’eroe con la figlia del re della città. In quell’occasione, la maga ricorse nuovamente alle sue arti: inviò in dono alla rivale un abito intriso di veleno mortale, e quindi uccise i propri figli generati con Giasone. Si allontanò da Corinto su di un carro alato inviato dal padre. L’avventura degli Argonauti, soprattutto quella del loro capo Giasone, ebbe così una conclusione tragica, che Euripide rievocò in una delle sue più celebri tragedie, Medea.
Tale sorte rispecchia simbolicamente il profondo contrasto fra la religiosità greca più arcaica, dominata da figure femminili depositarie della vita e della morte, e la religiosità più moderna, che consacrava al contrario la figura dell’eroe maschile, in una sorta di compendio della storia della religiosità greca. Nella Medea di Euripide, scritta numerosi secoli dopo questa storia leggendaria, si apriva un’estrema prospettiva di futuro e di conciliazione: Medea, infatti, dopo essere fuggita da Corinto sul carro alato, si rifugiò ad Atene, luogo ospitale e sede per eccellenza della civiltà, simbolica consacrazione di un’illuminata società ateniese quale culmine dell’esperienza greca, in grado di superare l’antico conflitto fra religiosità della grande dea e religiosità dell’eroe.
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Complimenti! Mi è piaciuto molto
Ho letto molto sul mitico viaggio degli argonauti, su Giasone, Medea, circe… Complimenti per la bella e precisa esposizione