L’imperatore Tiberio

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L’IMPERATORE TIBERIO

Molto spesso, quando si leggono i resoconti degli storici dell’Antica Roma sugli Imperatori, si ha la sensazione di seguire una trama scontata: nella prima parte si assiste alla descrizione di un uomo moderato e benefico, ma poco a poco, nella seconda parte della sua vita, vengono a galla le peggiori nefandezze della natura umana, avviluppando l’anima dell’individuo come mostri deformi e trasformando quel buon paterfamilias in un Cesare crudele e dissoluto. Le parole di grandi storici come Tacito e Svetonio sembrano quasi diffondere una cupa scienza della politica, tesa ad ammonire che il potere si raggiunge e si consolida attraverso il male, allontanando benevolenza e moderazione da colui che lo conquista.

Anche la raffigurazione di Tiberio è quella di un uomo che abbia smarrito per strada il filo che lo legava agli altri esseri umani, trasformando l’Imperatore in una sorta di bestia solitaria. Sebbene venissero divinizzati solo in seguito alla loro morte, già in vita gli Imperatori romani avevano spesso il proprio posto fra gli dèi, e si potrebbe dunque dire che la loro indifferenza alla vita altrui fosse di natura celeste: la degenerazione del potere è assai evidente nella biografia di Tiberio, almeno come la tracciano gli storici antichi, generalmente assai malevoli nei suoi riguardi.

L’IPOCRISIA DI TIBERIO

Designato alla successione da Augusto, che (seppur non come prima scelta) lo aveva adottato a questo scopo, Tiberio sembrò fare di tutto per sottrarsi al suo destino: ancora vivente Augusto, dopo essersi ritirato per sette anni a Rodi cercando di farsi dimenticare, si aggirava per Roma vestendo mantello e sandali alla greca, passeggiando senza scorta e visitando gli ammalati, preferendo le conferenze dei maestri di filosofia all’aula del Senato. Svetonio, che vedeva nel giovane patrizio un uomo ambizioso che simulava modestia con gli occhi fissi sul trono, lo descriveva “ogni giorno più disprezzato e inviso”, mentre Tiberio diceva di essere ormai sazio di onori (ottenuti grazie alle sue imprese militari) e di aspirare solamente al riposo.

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Tiberio, avvezzo a trattare coi soldati, era probabilmente sincero quando manifestava il suo disgusto per le basse manovre della Capitale. Augusto non amava e pare non stimasse il giovane, figlio di quella Livia che aveva sposato adottando Tiberio per amor della madre: diceva con sarcasmo che il figlio adottivo “aveva le mascelle lente”, e compiangeva il popolo romano che avrebbe un giorno dovuto subire un simile Princeps. Ciò che non gli impedì di designarlo quale suo successore, dopo i decessi degli uomini preferiti da Ottaviano, causati secondo le malelingue di Roma anche da qualche intervento, più o meno diretto, della stessa Livia.

Incomincia qui, secondo Svetonio, “l’impudente commedia di Tiberio: le smorfie dell’ambizioso che fa il modesto”. Tutte le manifestazioni più evidenti di un animo perplesso di fronte al temibile compito di diventare il padrone di Roma sono viste dai malevoli commentatori come una ripugnante forma di ipocrisia. Nessuno credeva alla sceneggiata di Tiberio che rifiutava la successione esclamando come un istrione “Voi non sapete qual mostro sia il potere!”, così come nessuno abboccava alla commedia di Tiberio che fingeva di rassegnarsi alle suppliche dei senatori mettendo avanti una ipocrita limitazione: “Fino a quando giunga il momento in cui stimiate di concedere un po’ di riposo alla mia vecchiaia”.

I TIMORI E I SOGNI DI TIBERIO

In realtà, Tiberio allora era già vecchio sia nel fisico che nell’animo. Aveva 56 anni e quella solitudine, che lui amava quando rappresentava una libera scelta, gli faceva paura adesso che stava per diventare il padrone dell’Urbe. Conosceva Roma e sapeva tutto di quel mondo in cui le donne della casa imperiale, non esclusa sua madre Livia, avevano artigli affilati ed erano pronte a servirsene pur di portare i loro cuccioli sul trono. Tiberio sognava una Roma sana e austera, qual era stata ai tempi della Repubblica, con un Senato integro e un popolo dignitoso e fiero: il fatto è che spesso, per corsi e ricorsi storici, ad un periodo di congiuntura favorevole (come era stato l’impero di Augusto) segue un periodo di recessione economica e sociale, che fu proprio quello in cui Tiberio di trovò ad agire.

Bisognava prendere misure antipopolari, e Tiberio dovette essere severo con se stesso e con gli altri. Riportare la Città Eterna agli antichi sistemi di vita, fatti di semplicità e purezza di costumi, comportarono grasse risate da parte del popolo nei confronti di questo “vecchio predicatore”, che pure vantava occhio acuto e mano inflessibile. A riderne più di ogni altro dovevano essere probabilmente le donne della casa imperiale, come quella Giulia, figlia di Augusto, che Tiberio aveva dovuto sposare pur conoscendone l’allegro libertinaggio, costretto a ripudiare la sua amata Agrippina che, secondo Svetonio, “ancora seguiva, quando la incontrava, con sguardo felice e commosso”.

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Un altro dei sogni di Tiberio era quello di ridare nuova e antica dignità al Senato, istituzione che però sembrava ormai così assuefatta al nuovo padrone di Roma da rispondere con l’adulazione più servile. Tiberio cercava di trasformare un popolo supino in una collettività fiera: era sempre lui a reputare offensivo l’appellativo di “Signore” che gli veniva rivolto, ed era proprio Tiberio a ripetere spesso “In una città libera, devono essere libere la lingua e la mente”. Anche col popolo continuava a predicare la moderazione pur in tempi di crisi economica, affermando “Il buon pastore tosa le pecore, non le scortica”.

Se però Tiberio riuscì a farsi amare dal popolo, non ottenne la stessa approvazione da parte dei Senatori, che Tiberio bollò “Uomini fatti per essere servi!”. Fu anche in seguito a questo fallimento che, attorno al 19 d.C., la contrapposizione sembrò volgere al termine, con la resa di Tiberio che abbandonò la sua lotta per ritrovarsi sospinto verso una solitudine fatta di pessimismo.

Per sé, il Princeps coltivava pochi vizi, che a occhi non prevenuti potrebbero anche passare per virtù. I Romani lo consideravano avaro, ma per molti egli era semplicemente parsimonioso, perché non amava sperperare il suo denaro come gli arricchiti di Roma, sebbene egli appartenesse alla antichissima Gens Claudia. Passava per uomo estremamente scontroso, perché interveniva raramente agli spettacoli che egli considerava superflui. Veniva ritenuto superbo ed altezzoso, a causa del suo elevato concetto di amicizia, tanto da affermare che coloro che gli stavano attorno erano “non amici suoi, ma persone gradite”. In mezzo a queste note, di merito o di demerito a seconda degli interlocutori, pareva avere un vizio comune a molti uomini, ossia il piacere per il vino: a Roma, le malelingue lo chiamavo Caldio Biberio Merone, come dire gran bevitore di vino puro.

LA ROMA DI TIBERIO

Il carattere di Tiberio, contrassegnato da una palese nota di pessimismo, si guastò sempre più col passare degli anni, anche e soprattutto in seguito alla morte del figlio Germanico, per la quale gli storici antichi (poi smentiti da quelli moderni) gli attribuirono anche una percentuale di colpa.

Roma, in quella fase ancora embrionale dell’Impero, era un guazzabuglio di menzogne e nefandezze. Erano gli anni delle grandi lotte intestine fra i membri della casa imperiale, condotte da quelle donne che nel progressivo rammollimento dei Cesari e dei patrizi sembravano mascolinizzarsi quanto a energia e ferocia, mantenendo intatte le doti femminili dell’intrigo e dell’astuzia. Tutta la lunga vita di Tiberio fu segnata da lotte, da raggiri e da tradimenti femminili: della madre Livia, che pretendeva di occuparsi degli affari di Stato anche grazie all’aiuto dei suoi partigiani, della moglie Giulia, che badava a divertirsi senza pudore, della nuora Agrippina, moglie del defunto Germanico, che tramava gelosamente contro Livia e contro Druso. Il popolo romano assisteva beatamente a quello sguaiato spettacolo, mentre Tiberio era costretto a barcamenarsi fra Seiano che lo insidiava e gli agrippiniani che congiuravano.

Di Seiano, Prefetto dei Pretoriani, Tacito aveva un’opinione assai negativa: “Elio Seiano, mostro suscitato dalla collera degli dèi contro Roma: dissimulatore per sé, calunniatore degli altri, servile e arrogante del pari”. Quasi tutti gli storici concordano nell’affermare che egli sia stato il vero responsabile dei peggiori giorni di Tiberio, ma è evidente che la salita al potere di simili individui nella Roma Antica era resa possibile da una decadenza della legittima autorità, quella senatoriale, che Tiberio per conto suo aveva ben cercato di arrestare.

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Di fronte a tutto questo caos, non c’è da meravigliarsi nel comprendere quanto il vecchio Imperatore aspirasse a quel riposo cui aveva alluso tanti anni prima, quando era stato persuaso ad accettare la successione di Augusto: l’idea di lasciare Roma dovette sembrargli meravigliosa, per ritrovare la serenità di quando, da giovane, si era appartato a Rodi per mescolarsi con la gente comune e studiare filosofia. Nel 21 d.C. si ritirò in Campania per un anno, quasi una prova per il suo ritiro a Capri a partire dal 26 d.C.

A Roma non tornò più, ma sebbene egli avesse scelto di abbandonare l’Urbe, egli non mollò mai le redini del potere: Tiberio era troppo esperto per lasciare Roma all’arbitrio dei Pretoriani, e conosceva perfettamente la natura di Seiano, la sua ambizione e la sua spietatezza, che avrebbe presto assuefatto i senatori incapaci e complici delle sue nefandezze.

Da Capri, dice Svetonio, “era stato particolarmente attratto dal fatto che, in quell’isola, circondata com’è da rupi a strapiombo e da un mare molto profondo, vi è un solo approdo su di una piccola spiaggia”. Tra quelle rupi e quegli strapiombi il popolino, aiutato dalla sempre vigile inventiva calunniatrice dell’alta società romana, fece presto ad immaginare una figura di vecchio imperatore arroccato sul punto più alto dell’isola nell’atto di contemplare il mare, crogiolandosi nei suoi vizi e nei suoi delitti. Nonostante la revisione iniziata per opera degli storici moderni, resta ancor oggi impressa nella mente di molti l’immagine convenzionale di un Tiberio sanguinario e perduto nei vizi, misterioso e suggestivo come il fantasma di un castello medievale.

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TIBERIO TORBIDO E SANGUINARIO

Svetonio, che certo non lo amava, scelse di evidenziare alcune caratteristiche dell’uomo, prima delle quali “le sue libidini segrete”, con l’Imperatore circondato da uno stuolo di ragazze e di giovani efebici, mentre “rianimava la sua virilità in declino” lontano dagli sguardi del popolo. Tacito, dal canto suo, raccontava che l’uomo che in gioventù era stato saggio e morigerato, un vero nostalgico della libertà repubblicana, si era trasformato in un mostro che arrivava a far spezzare le gambe alle donne che amava violentare.

Secondo alcune fonti dell’epoca, Tiberio coltivava la passione per l’arte divinatoria, e al suo palazzo inaccessibile astrologi e maghi si davano convegno la notte salendo per sentieri impervi e dirupati, con la prospettiva di essere precipitati nel sottostante mare se avessero deluso il Princeps con oracoli inaccurati. Le malelingue dell’epoca, prive ormai di ogni limite, raccontavano che in gioventù uno dei suoi precettori, Teodoro di Gadara, lo aveva definito “una melma intrisa di sangue”. I poeti improvvisavano versi che poi facevano il giro di Roma: “Oggi non ama più il vino, ama solo il sangue, e lo beve con avidità, come una volta il vino puro”.

Dicevano anche che la sua frase prediletta (sebbene oggi sia per tradizione attribuita al suo successore, ossia l’Imperatore Caligola) fosse ormai quella che sintetizza il potere tirannico: Oderint dum metuant, ossia “mi odino pure, purché mi temano”. Ed ecco completarsi così il rinnegamento integrale e quasi calcolato di un Imperatore che in gioventù si era illuso di dare agli uomini tutta la libertà possibile, nel pieno rispetto della ragion di Stato.

Quale contraltare di questo palcoscenico di crudeltà gratuite, c’era il Tiberio positivo, uomo coltissimo di latino e di greco, erudito di mitologia e filosofia, abituato fin da giovanissimo a severità militare e modelli di vita austeri. Molti atti definiti di crudeltà erano probabilmente punizioni inflitte a coloro che mancavano di rispettare ordini e leggi: probabilmente, considerava il doverle applicare un dovere e non un piacere, quasi fosse un inflessibile pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni.

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L’imperdonabile errore di Tiberio fu di affidare Roma nelle mani di Seiano, durante il suo isolamento a Capri. A Roma, Seiano complottava con senatori, magistrati e cavalieri, preparando un colpo di mano contro Tiberio; nel frattempo Tiberio, nel suo silenzio, preparava la difesa, creando segretamente un nuovo Prefetto del Pretorio, Nevio Sertorio Macrone. Fu una grande vittoria per Tiberio, probabilmente l’ultima del suo impero: furono infatti gli stessi senatori, magistrati e cavalieri ad accusare Seiano di aver cospirato contro il Princeps, facendolo condannare a morte e giustiziare; quel popolo che si era dilettato di cantare versi contro l’Imperatore dimostrò di colpo tutta la sua devozione per lui, impadronendosi del cadavere di Seiano per gettarlo straziato nel Tevere.

Da quel momento, si scatenò la furia di Tiberio. Svetonio, che si sfoga a mostrare in quell’anno tremendo un Tiberio inferocito fino ai limiti della follia, scrisse che se fosse vissuto ancora a lungo non avrebbe lasciato vivo nessuno della sua famiglia: faceva uccidere a caso chi gli capitava sotto mano, assistendo spesso alle esecuzioni quando avvenivano a Capri, non risparmiando gli ospiti né le vergini. E, poiché le tradizioni proibivano che le vergini fossero strangolate, le faceva prima violentare dal carnefice: Tiberio, in fondo, era assai rispettoso delle regole.

LA FINE DI TIBERIO

Così, tra quotidiani avvenimenti luttuosi, volgeva alla fine l’impero di Tiberio, portando con sé il segno di una condanna moralistica del potere, già pesantemente intrisa di Cristianesimo.

Tiberio aveva certo ormai dimenticato il supplizio avvenuto qualche anno prima di un giudeo chiamato Gesù, e certamente aveva dato ben poca importanza alla crocifissione del Golgota, tranquillizzato com’era stato da Pilato sul ruolo dei Cristiani. Difatti, quando la nuova religione cominciò a diffondersi in Roma, non la perseguitò ed anzi propose persino, nel 35 d.C., di legittimare la comunità cristiana che si voleva staccare da quella ebraica. Il Senato respinse la proposta, ma entrambe le comunità furono lasciate tranquille di seguire la propria fede.

A Roma, Tiberio non tornò più. Tacito scrisse che qualche volta si avvicinava alla Città “fino a vedere i propri giardini sul Tevere, ma poi tornava indietro ai suoi scogli e alla sua solitudine”. Lo storico interpretò con un’aura di malevolenza quest’ultima immagine, oggettivamente patetica, del vecchio che un amore scontroso sospinge verso i luoghi della sua giovinezza e delle sue speranze, per poi rifuggirne prima che un odore corrotto giunga ad avvelenargli i ricordi. Forse, senza voler trasformare il controverso Imperatore in un eroe romantico, Tiberio aveva ancora nel cuore il sogno di una Roma pulita, fatta di austerità e libertà, un’immagine che non voleva confondere con quella della Roma di Seiano e di Giulia.

L’ultima volta che si avviò verso Roma fu nel 37 d.C. Ammalatosi per strada, si affrettò a tornare in Campania e si fermò nella villa di Miseno, dove, stando a Svetonio, cercò di vincere il male attendendo alle occupazioni e ai piaceri consueti. Voleva tornare a Capri, ma dovette fermarsi nella villa che era stata di Lucullo per morire, all’età di 78 anni e dopo 23 anni di regno. Era il 16 marzo del 37 d.C.

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Nemmeno la sua morte fu indenne dai pettegolezzi. Svetonio e Tacito, il primo con un’aura di certezza ed il secondo instillando il beneficio del dubbio, scrissero che Tiberio venne soffocato con un cuscino per mano di Macrone, dietro istigazione di Caio Caligola. Tiberio aveva beneficato Macrone facendone il suo Prefetto del Pretorio, e nella strage della sua famiglia non aveva fatto uccidere Caligola ritenendolo forse un inetto: veniva così stabilito il principio secondo il quale il bene operato in favore degli uomini porta con sé il proprio castigo.

Quanto al cadavere dell’Imperatore Tiberio imperatore, poiché anche i cadaveri hanno una storia nella Roma dei Cesari, il popolo se ne impadronì al fine di gettarlo ignominiosamente nel Tevere; esso fu invece cremato con pubblica cerimonia, e il popolo dovette accontentarsi di invocare gli dèi Mani affinché, come annota Svetonio, “da morto non dessero a Tiberio sede se non fra gli empi”.

Cambiarono però idea molto rapidamente quando vennero a sapere che quello stesso Tiberio aveva deciso di regalare del denaro a ciascuno di essi, per legato testamentario. Come scrisse una volta Giulio Cesare, d’altronde, “Adulator propriis commodis tantum suadet” (l’adulatore tiene di mira solo i suoi interessi).

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6 pensieri su “L’imperatore Tiberio

  1. Enrico Bruschini dice:

    Complimenti! La più completa e precisa presentazione dei pregi e dei difetti dell’imperatore Tiberio!!!

    • Vincenzo dice:

      Buongiorno Lino. Attenzione, facciamo ordine: Germanico (Gaio Giulio Cesare Claudiano Germanico) era originariamente NIPOTE di Tiberio, in quanto figlio del fratello di lui, Druso. Fu però lo stesso Tiberio ad adottarlo come figlio, dopo aver perso in tenera infanzia il suo primo figlio, Giulio Cesare Druso.

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