CESARE BORGIA
Nel settembre 1494 il re di Francia Carlo VIII entrò in Italia col suo esercito. Da come lo vediamo in certi dipinti, e più ancora da come lo descrissero diversi contemporanei, egli era forse il personaggio più brutto di quell’epoca: di certo, non aveva proprio nulla di marziale né di imperioso, con gli occhietti tondi ed il naso poderoso che rendevano il suo viso decisamente poco attraente. A guardarlo, si aveva la sensazione che avesse ottenuto una certa valenza militare e politica solo perché la storia gliene aveva fornito i mezzi e l’occasione, al fine di compensare una natura crudele che, in quanto ad aspetto fisico, si era rivelata assai avara.
Gli italiani, però, nel guardarlo non risero affatto: avvezzi da secoli a lottare per ideali e per interessi campanilistici, vedevano nello straniero un amico o un nemico unicamente nella misura di quanto il suo intervento favorisse questo o quello staterello. La disunione generò un’estrema debolezza, tanto che la discesa di Carlo VIII divenne proverbiale come “la guerra del gesso”, a ricordo della leggenda per cui le nostre città, anziché difendersi e cedere alla supremazia delle armi, già si arrendevano quando vedevano approssimarsi il polverone sollevato dalla cavalleria dei francesi, i quali solevano sostare sotto le mura soltanto per il tempo che bastava a tracciarvi col gesso un segno di conquista.
L’eccezione, certo, non mancò, ed essa giunse da Firenze, che approfittò dell’avvenimento per cacciare la signoria medicea e contrappose al cipiglio di Carlo VIII un fierissimo motto per bocca del suo Pier Capponi: “Se suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane”. Il significato era tutt’altro che celato: provatevi a mandare all’assalto le vostre truppe, e noi chiameremo a raccolta i nostri popolani. Se probabilmente il motto fu soprattutto una leggendaria invenzione, resta il fatto che Carlo VIII lasciò in pace Firenze, sospese per l’occasione l’uso del gesso, e proseguì caracollando verso Napoli.
Prima, però, Carlo VIII passò da Roma, tirando in ballo senza accorgersene uno dei personaggi più suggestivi dell’epoca: Cesare Borgia, detto il Valentino.
IL PADRE, PAPA ALESSANDRO VI
Procediamo per ordine.
Quando i francesi, il 31 dicembre 1494, arrivarono a Roma, sul trono di San Pietro sedeva da più di due anni il Papa spagnolo Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia. Sessantenne, sanguigno, attaccato ai beni e ai piaceri del mondo con una sorta di voluttuosa ferocia, egli era succeduto ad Innocenzo VIII imponendosi in Conclave non solo con le armi dell’intrigante diplomazia ma anche con la forza di una personalità senz’altro fuori dell’ordinario.
Era talmente tanto potente e carismatico che non era sopraggiunto alcun ostacolo neanche dallo scandalo (all’epoca, a dire il vero, assai frequente e tollerato) di avere un’abbondantissima prole. Tre figli, infatti, gli si attribuivano con sicurezza come frutto di amori con donne rimaste sconosciute, mentre altri quattro (Cesare, Juan, Lucrezia e Jofré) erano nati dall’unione con Vannozza Cattanei, ufficialmente conosciuta e onorata come sua protetta, e teneramente cara al suo cuore anche se ormai soppiantata dalla più giovane Giulia Farnese.
Naturale che gli onesti se ne indignassero e che l’austero frate Girolamo Savonarola tuonasse inorridito dai pulpiti di Firenze; la gente di curia, i legati e gli ambasciatori commentavano però tale situazione con mondana indulgenza, trasformando l’opportunismo in tolleranza, al punto che talvolta la scandalosa condizione di Alessandro VI arrivò addirittura ad offrire qualche argomento positivo ai contemporanei più spregiudicati.
Del resto, si diceva, era un buon padre, attaccatissimo ai figli e disposto a tutto pur di assicurarne la fortuna. Un esempio valeva per tutti: prima ancora di essere Papa, egli aveva affrettato le carte per legittimare Cesare, il primogenito avuto da Vannozza e, subito dopo l’elezione, si era preoccupato di imporlo al collegio cardinalizio, ottenendogli la porpora e il titolo di arcivescovo di Valencia. Ecco perché Cesare Borgia, per tutti, era diventato “il Valentino”: il soprannome gli rimase attaccato per secoli e, per una curiosa coincidenza del destino forse appositamente sviluppata dalle parti, venne persino ribadito dal titolo successivamente conferitogli di Duca del Valentinois.
CARLO VIII A ROMA
Tornando all’ingresso di Carlo VIII in Roma, e tenendo presente la gran rivalità che divideva la Francia dalla Spagna, che all’epoca rappresentavano le principali “superpotenze” europee è facile comprendere come le cose minacciassero di finire in tragedia, anche considerando la situazione esistente nella Città Eterna alla fine del Quattrocento.
Il Papa spagnolo, con le sue donne ed i suoi fedelissimi, si chiuse in Castel Sant’Angelo. A quel punto Carlo VIII, dopo aver attraversato in tronfia parata le vie dell’Urbe, ordinò il saccheggio: venne devastata anche la casa, con vigna annessa, dove Vannozza Cattanei trascorreva una florida maturità, sbadigliando alla distratta presenza del terzo dei suoi mariti e seguendo con affettuosa discrezione la carriera mondana dei suoi quattro rampolli.
Ruberie e terrori, per fortuna, non durarono a lungo: Carlo VIII se ne andò dopo avere ottenuto da Alessandro VI il possesso di Civitavecchia, il riconoscimento ufficiale a marciare per lo Stato Pontificio dirigendosi a Napoli, nonché la compagnia proprio del Valentino quale “cardinal legato”, formula molto appariscente che però non ingannò nessuno, poiché era chiaro che Cesare Borgia stesse seguendo Carlo VIII come ostaggio.
L’ADOLESCENZA DI CESARE BORGIA
Più o meno ventenne (era nato fra il 1474 ed il 1475), forte nel corpo e nello spirito, taciturno per natura ma in grado di fingersi alla bisogna spensierato e loquace, Cesare Borgia parve adattarsi alla sorveglianza con tanto candore da sembrare un ingenuo.
Fu proprio grazie alla sua notevole capacità di adescare le menti altrui che, in quel di Velletri, riuscì a fuggire, lasciando nelle mani degli accompagnatori i molti bagagli che dovevano contenere il suo ricco corredo. Quando l’infuriatissimo Carlo VIII ordinò che i bagagli venissero aperti, per rifarsi dello smacco con un piccolo compenso alla sua taccagneria, casse e bauli si rivelarono pieni di stracci.
Fu proprio così, dunque, che il Valentino entrò a pesanti spallate nella storia e nella cronaca di Roma, ossia grazie ad una fuga sornionamente ben preparata, realizzata con un guizzo improvviso al momento giusto e coronata, nella manomissione dei bagagli, da un tocco di intelligenza ironica e dispettosa. Quest’ultimo dettaglio rappresentò la sua inconfondibile firma, quella di un uomo che non si accontenta di vincere ma che vuole sottrarre la vittoria a ogni possibile sospetto di casualità, dimostrando a sé e al mondo di saper governare il destino.
CESARE BORGIA ED I RAPPORTI CON I FAMILIARI
Tre anni dopo, nuovi fatti cominciarono ad esaltare il personaggio di fronte al popolo di Roma.
Tutto, in realtà, cominciò in sordina. Nel 1497 il Valentino divenne amante di sua cognata Sancia d’Aragona, moglie del più giovane fratello Jofré; le malelingue però sparlavano di lei, affermando che Sancia concedesse le proprie grazie anche all’altro cognato Juan, tanto che la stessa esuberante dama era solita proclamare di essere “tre volte nuora di Alessandro VI”.
Tali voci molto insistenti resero Cesare Borgia geloso, non certo dello sventurato marito di Sancia, quanto soprattutto della concorrenza di Juan, che a detta delle malelingue era probabilmente anche il prediletto del padre. Addentrandosi poi in ancor più tenebrose supposizioni, c’è da ricordare quanto veniva allora detto a fior di labbra, ossia che Juan avesse relazioni incestuose con la sorella Lucrezia e che la funesta gelosia del Valentino nascesse non da una reazione al disonore della famiglia, bensì da una frustrata cupidigia.
In breve tempo, la situazione sfociò in tragedia. Il 14 giugno 1497, Cesare e Juan furono invitati a cena dalla madre Vannozza e, fra liete conversazioni e generose libagioni, l’incontro proseguì fino a tarda notte. Quando venne l’ora di ritirarsi, Juan si accompagnò a un uomo mascherato. Qualcuno, da certi loro bisbigli, credette di capire che entrambi si sarebbero diretti a un galante festino, ma Juan non fu più visto vivo: lo ripescarono nel Tevere, trafitto di pugnalate. Il Pontefice pianse a lungo la sua disperazione, ed il Valentino gli fece eco, giurando di vendicare il fratello. Mentre giurava, però, a detta di chi lo osservò, aveva gli occhi asciutti: secondo gli storici, ma soprattutto secondo coloro che erano bene addentro ai segreti della corte pontificia, ad architettare l’assassinio era stato lui.
Al primo fattaccio ne seguirono altri. L’anno dopo, il Tevere vide galleggiare sulle sue acque un altro cadavere trafitto. Non si trattò, questa volta, di un grosso personaggio né di un membro della famiglia Borgia, ma di Pedro Calderòn detto “Perotto”, cameriere segreto del Papa, colpevole anch’egli di sfrontata intimità con la sorella Lucrezia.
CRIMINI E SCELLERATEZZE
Quello di Cesare Borgia fu un vero e proprio catalogo di crimini, di scelleratezze e di vergogne. Chi dice però che il motivo principale di ciò fu il torbido amore per la sorella, nega l’aspetto principale del carattere del Valentino, ossia la smania di grandezza e l’insofferenza per la rivalità.
Uno dei personaggi a cui gli storici amano accostare Cesare Borgia, pur con tutte le differenze del caso, è il fiorentino Niccolò Machiavelli. Occasione dell’incontro fra i due fu un episodio della partita che andava giocandosi su quel tavolo della politica estera dove il Pontefice Alessandro VI teneva banco: la successione sul trono di Francia di Luigi XII al povero Carlo VIII, e la gran simpatia dimostrata verso i Borgia dal nuovo sovrano che, intendendo di sposar la vedova del predecessore, mirava a ottenere dal Papa lo scioglimento dal vincolo matrimoniale che lo legava alla moglie Giovanna.
Nacque addirittura un progetto di nozze simultanee: Luigi XII avrebbe impalmato la sposa di Carlo VIII, mentre Cesare Borgia avrebbe sposato Carlotta d’Aragona. Di questi matrimoni, però, venne concluso solo il primo, mentre il Valentino dovette ripiegare su altri lidi, ben più modesti. Luigi XII riuscì però a ripagarlo ben presto della delusione, tenendoselo accanto come “cugino”, assicurandogli come detto il ducato del Valentinois e promettendogli chiaramente una solidarietà pressoché illimitata.
MACHIAVELLI E CESARE BORGIA
Fu proprio da questa solidarietà che scaturì il già citato legame con Machiavelli, sviluppatosi durante la conquista delle Romagne, con l’insediamento del Valentino in quella regione. Il 6 ottobre 1502, lo storico fiorentino venne infatti inviato alla sua corte dalla repubblica fiorentina, per ripartire il 23 gennaio dell’anno successivo.
Machiavelli ebbe così modo di seguire da vicino il dramma di Senigallia, città in cui Cesare Borgia, convocati con apparente benignità certi capi del suo esercito che lo avevano tradito, non esitò a trasformare il convegno in agguato sanguinario sbarazzandosi degli infedeli. Da tale visione nacque uno scritto famoso nella bibliografia machiavelliana, intitolato “Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati”, ma soprattutto fu proprio da tale evento che si rafforzeranno in Machiavelli le famose considerazioni contenute nel “Principe”, che tanto contribuirono ad attirare su quel libro la nomea di immoralità.
“Era temuto Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considererà bene, si vedrà quello essere stato molto più pietoso che il popolo fiorentino, il quale, per fuggire al nome di crudele, lasciò distruggere Pistoia”.
LA MORTE DI CESARE BORGIA
La storia, però, a volte vuole fornire lezioni di vita. Niccolò Machiavelli, campione proverbiale di quella furbizia politica che andrà sotto il nome di “machiavellismo”, e Cesare Borgia, torbido eroe della spregiudicatezza indiscriminata, finirono male tutti e due.
Il primo venne logorato dalle vane illusioni di conciliare i propri interessi con le mutevoli ed imprevedibili sorti dell’amministrazione di Firenze.
Al secondo andò anche peggio. La sera del 10 agosto 1503, Cesare Borgia andò con suo padre a cena dal ricchissimo cardinale Castelli ma, dopo aver mangiato e bevuto a lungo, entrambi si sentirono male. Alessandro VI morì nel giro di una settimana, ed il Valentino rimase a lungo fra la vita e la morte. Gli ingenui affermarono che si trattò solo di una casualità, forse conseguenza del solleone o più probabilmente del proliferare in Roma delle malattie infettive; gli scaltri pensarono ai Borgia avvelenati, proprio loro che con la misteriosa “acqua tufana” si erano sbarazzati di tanta gente molesta.
Alla fine, il Valentino se la cavò, ma dopo questo incidente qualcosa nella sua mente era mutato. Semplicemente non era più lui, quasi che la debolezza gli avesse fatto affiorare certi svagati languori tenacemente nascosti sotto la maschera dell’uomo crudele e deciso.
Cercò di riemergere appoggiandosi alla Spagna, ma finì prigioniero degli spagnoli e proprio in Spagna morì, combattendo una piccola guerra che non lo riguardava, durante la notte dell’11 marzo 1507, trafitto da ventitré colpi di picca durante una scaramuccia al servizio del re di Navarra.
Secondo coloro che sempre gli furono favorevoli, quello di Cesare Borgia fu un supremo atto di coraggio disinteressato, ed un decesso da uomo vero. A detta dei suoi detrattori, invece, fu semplicemente una disperata ricerca di farla finita con una vita caratterizzata da indicibili nefandezze.
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