L’alfabeto Etrusco

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L’ALFABETO ETRUSCO

Le immagini degli antichi Romani popolano ancor oggi monumenti, archi di trionfo, lastre funerarie, sarcofagi e monete: magistrati togati con un volumen nelle mani, soldati nell’atto di trafiggere un barbaro caduto a terra, Imperatori che accettano la sottomissione dei vinti o rivolgono l’adlocutio ai legionari. Tutti questi rilievi, più o meno raffinati, esprimono il medesimo concetto: noi siamo i più forti ed i più saggi, e pertanto il nostro dominio durerà in eterno.

Talvolta, nelle scene del trionfo e della sottomissione, dietro ai principali protagonisti avanzano i popoli soggiogati. Tra questi, i meno rappresentati figurativamente, perché assoggettati prima che l’arte emanasse il messaggio trionfalistico inteso a intimidire gli oppressi e rassicurare gli oppressori, sono coloro che, essendo maggiormente confinanti con Roma, venne per primi decimati, assimilati e cancellati nella loro personalità etnica: gli Italici.

Latini, Sabini, Etruschi, Umbri, Sanniti, Lucani, Marsi, Equi, Volsci, Piceni, Apuli, Messapi, Liguri e altri ancora: i documenti delle loro civiltà, spente dal rullo livellatore di Roma, faticano ad affiorare dagli scavi, facendo nuovamente ascoltare le voci dei popoli. I più noti, anche grazie alla vastissima documentazione archeologica pervenuta fino a noi e a dispetto della carenza di testi letterari, legislativi e religiosi, sono gli Etruschi. Si tratta dei veri e propri antenati dei Romani, che hanno lasciato tutt’attorno alla Città Eterna tracce inconfondibili della loro cultura: le strade, le mura, le porte, i ponti, le necropoli, gli impianti minerari e portuali, gli straordinari affreschi delle necropoli di Tarquinia.

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L’INVENZIONE DELLA SCRITTURA

Quello che apparentemente sembra mancare, in ciò che gli Etruschi hanno fatto giungere fino a noi, è la forza della parola. “Ceia hia etnam ciz vacl-tnn velthre male ceia hia etnam ciz vacl aisvale male ceia hia trinth etnam ciz ale male ceia hia etnam ciz vacl vile vale”: scritte in caratteri limpidi e arcaici, parole come queste, ancora assai misteriose, fuoriescono da pietre e lamine d’oro etrusche, ipnotizzando con la forza della loro fonetica e per la loro parzialmente enigmatica traduzione.

I Romani, senza alcun dubbio, derivano dagli Etruschi. Il trapasso da una civiltà all’altra si è però sempre colorato, nelle ricostruzioni propostane dalle leggende popolari o doviziosamente elaborate da storici e letterati, di tinte miracolose e sensazionali. Tito Livio, ad esempio, parla del “miracolo delle lettere” insegnate dall’arcade Evandro agli abitanti della penisola italica, sfruttando quella medesima conoscenza che Eracle aveva donato a lui. Altri autori, assecondando le informazioni raccolte da Tacito, ricordano nomi letteralmente mitologici quali Cadmo Fenicio, Cecrope di Atene o Palamede di Argo, mentre Eschilo aveva fatto della “combinazione delle lettere” nientemeno che una delle invenzioni di Prometeo, il primo filantropo che per il bene dell’umanità si sia cacciato nei guai con l’Olimpo.

Non mancano poi coloro che ritengono la scrittura nientemeno che un’invenzione divina, la cui trasmissione all’uomo sarebbe avvenuta per furto oppure per dono diretto degli dei, da parte di Zeus o Athena. Secondo Diodoro Siculo, poi, il vero responsabile della fondamentale invenzione sarebbe Hermes, protettore di ladri e mercanti ma soprattutto araldo degli dei, e come tale specialista nella accurata formulazione e trasmissione dei messaggi.

LE PRIME ISCRIZIONI IN ITALIA

Il più antico nucleo di iscrizioni di tipo alfabetico ritrovato in Italia risale circa alla metà dell’VIII secolo a.C. e proviene dall’insediamento di Greci venuti dall’Eubea ed installatisi a Pithekoussai (Ischia). Dalla necropoli ischitana di San Montano provengono infatti sia poche brevi scritte in caratteri fenici che una lunga iscrizione greca, graffita sulla cosiddetta Coppa di Nestore, fabbricata a Rodi e decorata a motivi geometrici. Si tratta di un’iscrizione colta, redatta in versi, che contiene addirittura una citazione omerica: un ambizioso paragone fra il vaso stesso, di cui esalta le qualità, e la celebre coppa del re di Pilo descritta nell’Iliade.

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Ebbene, è proprio un alfabeto di tipo greco-occidentale in tutto simile a quello dei coloni di Ischia e di Cuma, derivato a sua volta dal modello fenicio, quello che gli Etruschi scelsero per sé. Anche i caratteri latini insegnati da Evandro, del resto, a detta di Tacito, erano identici ai più antichi usati dai Greci. La più antica iscrizione etrusca a noi conservata è anch’essa graffita su di un bicchiere fabbricato in Grecia, nella città di Corinto: tale iscrizione fu rinvenuta probabilmente a Tarquinia e risale all’inizio del VII secolo a.C.

Tutto ciò non deve stupire, considerando che fu proprio quell’Etruria meridionale e costiera, che aveva ormai raggiunto livelli assai articolati di strutturazione sociale, a venire per prima in stretto contatto con le colonie della Magna Grecia: fu quindi probabilmente proprio lungo quelle rotte che nacque l’alfabeto etrusco, sulla verosimile base di esigenze simmetriche di definire, esplicitare, codificare norme e accordi di vario livello, dal commerciale al politico. La scrittura fu quindi, senza dubbio, uno dei più limpidi sintomi di un balzo di qualità che portò le società protostoriche da regimi di coesistenza fondati sulla comunicazione orale alla necessità di progressive codificazioni, a fronte del loro aprirsi a rapporti stabilmente interrelati su più ampi orizzonti. È sintomatico, in tale senso, che la più antica iscrizione alfabetica greca venga proprio dal mondo coloniale, da una situazione cioè di frontiera.

Molto più vicina nel tempo è la più antica iscrizione etrusca della quale il ricordo ci sia stato tramandato dagli storici antichi. Si tratta di una menzione indiretta da parte dello storico Dionigi di Alicarnasso il quale, descrivendo nelle sue Antichità Romane le gesta di Romolo, racconta come, a conclusione dell’ultima sua vittoriosa campagna contro la città etrusca di Veio, il primo re di Roma avesse imposto ai Veienti pesantissime condizioni per una pace di cento anni: i termini dell’accordo, una volta accettati dagli sconfitti, vennero incisi su apposite stele (Dionigi di Alicarnasso usa appositamente il plurale ad indicarne la molteplicità) adoperando nella stesura anche la lingua dello sconfitto, ossia l’etrusco. Si tratterebbe, per crudele ironia davvero della sorte, del primo testo bilingue latino/etrusco della storia!

Sono proprio le iscrizioni bilingue a fornire il primo consistente aiuto nell’identificazione dell’alfabeto etrusco, laddove eminenti personaggi etruschi fanno apporre sulle loro urne l’epigrafe sepolcrale sia nella lingua degli avi che in quella, ormai dominante ed ufficiale, di Roma. Farà così anche quel Laris Cafates, vissuto intorno al l secolo d.C. in quel di Pesaro, il quale sulla sua pietra tombale si qualificherà come esperto nell’arte etrusca della divinazione, come aruspice e domatore di fulmini, prima in latino (haruspex fulgurator) e poi in etrusco, con una grafia un po’ imbastardita (netsvis trutnvt frontae).

SCRITTURA E RELIGIONE ETRUSCA

D’altronde, le radici del patrimonio sapienziale etrusco raccolto nei libri degli aruspici arrivavano a confondersi, nei tempi e nei protagonisti, con il primo uso della scrittura.

Le prime opere di letteratura etrusca che il mito indigeno ricordi riguardano appunto l’aruspicina. Sotto la dettatura del “fanciullo” Tagete (figlio o nipote di Giove stesso), nato per incanto dalla terra nei pressi di Tarquinia, i progenitori dell’Etruria storica, primo fra tutti il fondatore stesso di Tarquinia, Tarconte, affidano questa scienza per la prima volta alla scrittura. È obiettivamente indubbio che, soprattutto in età arcaica, scrivere fosse in Etruria (come presso tutte le civiltà antiche) un gesto polivalente, le cui dimensioni sconfinavano dal semplice ambito della fissazione del messaggio fino ad una sfera magico/religiosa. Il miraculum litterarum dava corpo e materia all’eterea parola, fissandone la proverbiale labilità su un supporto fisico e durevole, che acquisiva indirettamente piena facoltà di parlare: ed ecco la comparsa dei cosiddetti “oggetti parlanti”, che uniscono al comparto simbolico la segnalazione del prestigio della famiglia o del valore ornamentale dell’oggetto stesso.

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A solo fine esemplificativo, esaminando i molteplici “oggetti parlanti” esposti presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, è possibile soffermarsi dapprima su un semplice vasetto d’impasto scuro del II secolo a.C., proveniente da Vulci, su cui si snoda una scritta pressochè priva di segni d’interpunzione che corre ininterrotta lungo il corpo sinuoso di un serpente, e poi su una sorta di calamaio in finissimo bucchero, trovato a Cerveteri in una tomba principesca del VII secolo a.C.: su quest’ultimo, si vedono una serie di sillabe realizzate con la semplice combinazione di consonanti e vocali realmente praticate in etrusco, disposte secondo la successione alfabetica delle consonanti (ci, ca, cu, ce, vi, va, vu, ve, zi, za, zu, ze). Attorno al piede del vasetto, su di una fascetta in leggero rilievo, si legge invece l’intero alfabeto modello, composto da venticinque lettere, inclusi anche segni dell’alfabeto greco (come il beta, il delta, l’omicron) e fenicio.

La presenza dell’alfabeto stesso, trascritto nella sua interezza e semplificato su oggetti che talvolta hanno una trasparente attinenza all’esercizio della scrittura, come nel caso del suddetto calamaio, contrassegna un nutrito gruppo di iscrizioni etrusche arcaiche, a cui è comune un intreccio di contenuti simbolici, primo fra i quali l’evidenziare l’elevata cultura del defunto nella cui tomba l’oggetto veniva deposto: la presenza di tale oggetto, assieme alle armi e al vino, avrebbe permesso al defunto anche di scrivere e di parlare nell’aldilà.

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LE LAMINE DI PYRGI

Gli Etruschi, quindi, scrivevano molto, e lo facevano anche su lamelle di piombo, bronzo o addirittura oro. Ciò è confermato da svariati esemplari, provenienti sia da tombe che da santuari di varie località dell’Etruria, da Chiusi a Tarquinia, fino alle straordinarie Lamine di Pyrgi, esposte anch’esse al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Per comprendere l’importanza di tale rinvenimento, è necessario rifarsi alle parole di Plinio il Vecchio il quale, nella sua Naturalis Historia, elencò i materiali degli quali gli Etruschi solevano servirsi per scrivere, parlando nello specifico di “plumbeis voluminibus”, riferendosi all’uso di arrotolare le lamine stesse come in un volumen.

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Fu proprio sotto forma di rotoli, seppur schiacciati dal peso del terreno sovrastante, che vennero rinvenute nel 1964 presso Pyrgi, l’odierna Santa Severa, le tre celebri lamine d’oro. Inchiodate probabilmente ad una parete di uno dei due templi, eretti attorno ai primi decenni del V secolo a.C., che si affacciavano paralleli alla riva del mare, erano destinate ad un pubblico cosmopolita: due di esse erano infatti redatte in etrusco, una in punico.

Il più lungo dei due testi etruschi e quello punico hanno contenuto similare e parallelo, pur senza avere andamento perfettamente bilingue (differendo in tal senso, per intendersi, dall’altrettanto celebre Stele di Rosetta). Si riferiscono alla dedica di un luogo di culto, e forse di una statua, alla dea fenicia Astarte, equiparata alla etrusca Uni, da parte di Thefarie Velianas, che il prezioso testo fenicio ci presenta come “re di Cerveteri”. La resa in fenicio del nome della città stessa è anzi per noi un insostituibile indizio che ci avvicina all’originario suono etrusco di esso: Kais(u)ra. Il testo etrusco più breve allude invece ad azioni rituali che Thefarie Velianas aveva stabilito doversi compiere ogni anno.

I tre testi evidenziano il perdurare, alle soglie del V secolo a.C., di quei rapporti ceretano-cartaginesi che già mezzo secolo prima avevano portato alla comune vittoria contro i Focei nel mare di Alalia, della quale ci riferisce lo storico Erodoto.

I PRINCIPALI TESTI ETRUSCHI

Se le Lamine di Pyrgi costituiscono senza dubbio il più sensazionale rinvenimento epigrafico etrusco del XX secolo, venuto a coronare una indagine archeologica minuziosamente programmata, i tre più lunghi testi etruschi conservatisi fino ai giorni nostri si devono invece a scoperte casuali e talvolta talora avventurose avvenute nel XIX secolo.

La prima fu quella del Cippo di Perugia, scoperto nel 1882. Si tratta di un perfetto parallelepipedo in travertino, recante sui due lati l’accurata trascrizione di un patto stipulato, intorno al III secolo a.C. tra due famiglie, i Velthina e gli Afuna, per una definizione di proprietà. La scoperta del testo, ricco di circa centotrenta parole, fece giubilare linguisti ed epigrafisti, a cominciare da Giovambattista Vermiglioli, fondatore della scuola archeologica dell’ateneo perugino, che addirittura promosse una sottoscrizione fra i colleghi dell’università per assicurarsene l’acquisto.

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Serviva, però, un più clamoroso colpo di fortuna e audacia. Quando, verso la metà del XIX secolo, George Dennis, infaticabile visitatore e descrittore di luoghi etruschi, osservava che purtroppo, per sciogliere i nodi della lingua etrusca, ci sarebbe voluta un’altra Stele di Rosetta, proprio la terra d’Egitto si ingegnò per offrire all’etruscologia il documento più sensazionale per l’interpretazione della lingua: un liber linteus (libro di lino), al momento il solo sopravvissuto fra quanti gli Etruschi ne scrissero nell’antichità. Si tratta di un calendario rituale, scritto intorno al II secolo a.C., che una colonia di Etruschi portò con sé in Egitto: qui esso finì nelle mani di un mummificatore che ne ricavò, tagliandolo per il lungo, delle bende con le quali avvolse una mummia. Mummia e bende vennero acquistate da un ricco collezionista croato, Mihailo Bari, nel 1849, e quasi mezzo secolo più tardi il testo misterioso che le bende erano venute svelando sulla loro faccia nascosta fu riconosciuto come etrusco.

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Il terzo oggetto di cui è opportuno parlare è la cosiddetta Tegola di Capua, rivenuta nel 1898 nell’omonima località. Essa contiene un testo del V secolo a.C., ricco di prescrizioni rituali di carattere funerario situabili nell’ambito di un culto familiare; fitto, corsivo ma corretto, il testo è guidato da un ferreo rispetto di norme grafiche di sapore colto ed è pervaso da un forte tradizionalismo religioso. Si tratta di un ritualismo serratissimo, che ben si attaglia ai lineamenti della scienza religiosa etrusca, caratterizzata dalla dicotomia fra l’immutabile volontà degli dei e la parziale governabilità della stessa da parte dell’uomo attraverso la divinazione.

È proprio in relazione a quest’ultimo concetto che merita un’analisi anche un “documento” che sono in senso analogico può essere affiancato allo studio della lingua etrusca: si tratta del celebre modellino in bronzo di un fegato di pecora, rinvenuto a Settima di Gossolengo presso Piacenza, esposto in copia anche al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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Il “fegato di Piacenza” è suddiviso in caselle, ciascuna intitolata al nome di una divinità etrusca, ed esso fu certamente di guida alla interpretazione dei segni presentati dalle vittime sacrificali durante la cerimonia dell’aruspicina: una lingua, quella etrusca, che si legava inscindibilmente anche alla religione ed alla superstizione, facendo rabbrividire i più fervidi seguaci della razionalità romana, primo fra tutti quel Catone il Censore che si chiedeva spesso, con sarcasmo, come potesse un aruspice restare serio nello svolgimento dei propri rituali.

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4 pensieri su “L’alfabeto Etrusco

  1. Italo dice:

    Per quanto riguarda la prima comparsa della scrittura in Occidente forse bisogna ricordare le iscrizioni della Sardegna

  2. Zanon Giovanni dice:

    Testo molto interesssnte e assai competente. Conoscevo le laminne di Pyrgi ele bende mummificali di Zagabria IL cippo di Perugia e IL fegato di Piacenza. Demands ma non e’ un po’ poco come fonti letterarie per comprendere storicamente un popolo cosi avanzato Nella civilta come l’Etrusco?

    • Vincenzo

      The Real Person!

      Author Vincenzo acts as a real person and passed all tests against spambots. Anti-Spam by CleanTalk.

      dice:

      I documenti non sono moltissimi, ma alcuni essi sono assai rilevanti: ovviamente, nel blog mi sono limitato a citare solo alcuni dei documenti principali relativi alla scrittura etrusca, sorvolando ad esempio sulla celebre Tabula Cortonensis, che per lunghezza è il terzo documento in lingua etrusca mai ritrovato. Si aggiungano a ciò molteplici “oggetti parlanti”, ossia caratterizzati da iscrizioni in prima persona che hanno aiutato, seppur solo in modo frammentario, la comprensione della lingua etrusca. In ogni caso, ha ragione: parliamo di una civiltà molto avanzata, sia dal punto di vista ingegneristico quanto sociale.

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