ARISTIDE SARTORIO A MONTECITORIO
A Montecitorio, tra lucernario e tribune, un grande fregio pittorico gremito di figure allegoriche incombe sopra le teste dei deputati: si riconoscono, fra di esse, la Giovane Italia, il Rinascimento, l’Arte, l’Umanesimo, l’Idioma Unificato, le Scoperte, la Classicità, l’Educazione Cavalleresca e molte altre simbologie.
Il pittore Aristide Sartorio, a cui la decorazione fu commissionata nel 1908, concepì una “visione tutta ideale, adatta a essere davanti agli occhi del Re e dei Ministri d’Italia”.
Quando Sartorio ricevette la commissione del fregio decorativo per la nuova aula del Parlamento, su designazione di Ernesto Basile, egli era appena reduce dall’affermazione alla VII Esposizione Internazionale di Venezia, con i suoi quadri decorativi per il Salone d’Onore che tanta eco ed ammirazione avevano destato. Oggi, esaminando la cospicua documentazione inerente il fregio dell’aula, e considerando il ristretto tempo di esecuzione (meno di cinque anni, dal 1908 al 1913), si resta colpiti dalla stupefacente facilità con cui Sartorio fece fronte a un impegno assai difficile e monumentale, con 105 metri di lunghezza, oltre tre metri e mezzo di altezza ed un totale di circa 200 figure.
IL METODO DI LAVORO DI SARTORIO
Sartorio amò follemente questo lavoro, tanto da scrivere al suo amico Papini: “Io sono stato fortunato. Proprio quando mi sentivo maturo per un’opera più grande, appena giunto a esprimere meglio quel che sento e vedo dentro di me, ho avuto l’incarico di questo lavoro che mi fa vibrare e lavorare e pensare con lo slancio e l’entusiasmo di un giovane di venti anni. Nessuna grande decorazione avrebbe potuto appagarmi come questa, nessun’altra avrebbe potuto offrire sì largo campo alla mia mano”.
Sartorio, pragmatico ed efficiente, programmò perfettamente i tempi di esecuzione, con un metodo di applicazione costante e disciplina. Ai critici, che affabilmente riceveva nello studio, spiegava: “Sarebbe pericoloso e forse vano aspettare che l’idea venga a incontrarsi dove a noi meglio convenga, mentre siamo a passeggio o sdraiati sulla nostra soffice poltrona. Bisogna mettersi al lavoro, bisogna che noi andiamo incontro all’idea e allora tutto va da sé ed allora si compie presto anche ciò che sembrava esorbitante. Io mi son proposto di terminare ogni mese due sezioni del fregio. Se, come ho ragione di credere da quello che ho già compiuto in 20 giorni, ci riuscirò, basteranno 9 mesi a terminare tutto. Si capisce: abbozzatamente. Mi ci vorrà altrettanto tempo per dipingerlo?”.
Si sentiva allora in possesso di energie inesauribili, che gli consentivano di applicarsi, oltre che alla monumentale pittura, alla stesura di un romanzo e all’esercizio all’aria aperta del suo sport preferito, l’equitazione. La distribuzione calcolata di queste energie in canali espressivi differenti tendeva alla composizione armoniosa ed equilibrata di tratti contrastanti della personalità. Questo culto della forza e dell’energia, che dall’uomo trasmigra nell’opera d’arte, è un tratto che Sartorio mutua dal modello del Superuomo dannunziano e trova il luogo adatto di esplicazione in un’impresa che, per le proporzioni stesse, aveva del gigantesco.
Esprimersi con forza e dare alle forme una massiccia evidenza plastica era un’esigenza che Aristide Sartorio aveva sempre sentito: “Per arte decorativa, io non intendo solamente il raggruppamento di figure armoniosamente composte, ma anche una riunione di simboli che abbiano una grandiosa significazione epica. Il fregio del Parlamento non è soltanto una pittura; esso deve essere anche un poema”.
Sartorio intendeva essere artista in modo totale, esprimersi con la pittura, la scultura e la parola scritta; scultura e parola erano per lui affini, e la pittura doveva avere della prima la forza e il risalto e della seconda la densità di contenuto, senza affatto rinunciare alla maestria e alla sottigliezza del colore.
Il fregio, che ha nel colore il suo mezzo espressivo primario venne arricchito da iscrizioni chiarificatrici, perfettamente fuse con le immagini, al fine di rendere più agevole la lettura da parte dello spettatore. Aristide Sartorio redasse inoltre un testo esplicativo, dotto e dettagliato, come supporto interpretativo dell’opera dipinta.
LA TECNICA DI ARISTIDE SARTORIO
La fiducia che Ernesto Basile dimostrava di riporre in Sartorio, ritenendolo l’artista più adatto a realizzare una decorazione pittorica rispondente ai propri criteri artistici, dipendeva naturalmente dalle prove che egli aveva dato recentemente come decoratore, ma anche dalla posizione di primo piano che aveva acquisito nei luoghi deputati dell’arte, ossia le grandi esposizioni.
L’unico dissenso manifestato all’interno della commissione, da parte di quel Cesare Maccari che poi si dimise, riguardò l’esecuzione del fregio a encausto su tela invece che ad affresco: esso può essere considerato, a tutti gli effetti, un passaggio di consegne fra l’artista che aveva affrescato Palazzo Madama, ossia la sede del Senato Italiano, e colui che era stato prescelto per decorare le pareti della Camera dei Deputati.
Del resto, le ragioni per preferire la pittura a cera erano più di una e tutte valide: la possibilità di dipingere rapidamente in modo da garantire il completamento del fregio entro il 1913 e soprattutto di eseguirlo in sezioni separate nello studio, mentre proseguivano i lavori dell’aula; la maggiore luminosità e trasparenza di colore ottenibili con questa tecnica si sarebbero poi adattati meglio al legno di rivestimento delle pareti e al lucernario dell’aula.
Il primo problema che Sartorio si pose nell’eseguire il bozzetto fu come inserire le figure nello spazio architettonico, enormemente ampio e profondo. Il secondo problema fu come rapportare la sua pittura con le boiseries e i vetri decorati, realizzati con motivi tipici dello stile di Ernesto Basile.
Nello svolgimento in forma di fregio del tipo di decorazione figurata dei pannelli veneziani, Sartorio evitò qualsiasi elemento che potesse interferire con l’architettura e il piano della parete. Le interruzioni inserite da Sartorio sono espedienti per “chiudere” la sequenza continua di figure, che altrimenti apparirebbe sospesa, e per consentire ai personaggi una certa varietà di atteggiamenti.
I PRIMI BOZZETTI
Nella definizione della struttura del fregio, Sartorio lavorò intensamente e rapidamente, pescando a piene mani nel repertorio iconografico definito nelle sue precedenti decorazioni. Il bozzetto finale (che Ugo Ojetti definì impietosamente “vivace ma trito, con figure tanto uguali nella loro gracilità un po’ leziosa”) venne immediatamente reso noto al pubblico attraverso la pubblicazione su Illustrazione Italiana e successivamente, nel 1909, venne esposto all’Esposizione Internazionale di Venezia.
Esso dava già un’idea molto precisa della composizione, fondata su una successione di figure nude e drappeggiate e di cavalli, e del suo significato. Alcuni critici videro, nel lavoro di Sartorio, una riproposizione in chiave moderna del fregio del Partenone, esposto in frammenti al British Museum e certamente visionato da Sartorio durante il suo soggiorno londinese del 1908. Si trattava di temi mitologici che si adattavano perfettamente ai miti moderni: da un lato il mito dei popoli giovani, quale era l’Italia di recente unificata, destinati a soppiantare i vecchi in un nuovo concetto di nazione, dall’altro la forza istintiva dell’animale alleato dell’uomo, simbolo dello slancio progressista del paese.
Dal bozzetto alla creazione finale si vede però una decisa evoluzione: l’alternanza di sequenze agitate e parti statiche cede il posto a un ritmo continuo, fluido e dinamico, che asseconda l’andamento della parete e converge in due punti focali, centrali e in asse fra loro, particolarmente significativi. In tal senso, il contenuto del fregio deve ritenersi creazione di Sartorio; possono esserci stati suggerimenti della committenza per il significato complessivo e forse per quanto riguarda il particolare accento posto sulla parte avuta dal Piemonte e da Casa Savoia nel processo di unificazione nazionale, ma spettò soltanto al maestro la trattazione della storia d’Italia in forma allegorica, secondo il moderno idealismo, rivissuta attraverso un’estetica personale e ingegnosamente adattata alla situazione spaziale.
LA DECORAZIONE
Come si legge in apertura del testo esplicativo, “l’intera composizione essendo concepita in rapporto alla forma architettonica, si divide in due parti distinte, una retta sul diametro e l’altra curva intorno alla parete dell’esedra”.
Nella parete curva si svolge “una visione tutta ideale, adatta ad essere davanti agli occhi del Re e dei Ministri d’Italia”. Al centro sta la Giovane Italia, immagine antieroica e familiare di fanciulla, evidentemente a significare la recente unificazione; ai lati i cavalli della quadriga e i Dioscuri, allusivi a nord e sud affratellati, conferiscono al gruppo il significato aulico di trionfo. L’Italia riceve l’offerta delle “doti spirituali”, ed è il Rinascimento a presentarle: a sinistra ci sono l’Arte, l’Umanesimo e l’Idioma Unificato a sinistra, mentre a destra sono le Scoperte, la Classicità e l’Educazione Cavalleresca.
Tutte queste figure sono riassunte nei simboli presentati da giovani nudi o avvolti in panneggi: i manoscritti antichi ritrovati, il globo terracqueo esplorato, il Palladio, la riproduzione della Vittoria di Taranto e la grande statua della Vittoria di Brescia, cantata da Carducci nelle Odi barbare. Nel processo di ricerca della tradizione storica nazionale, Sartorio pone il punto di partenza dei valori fondamentali della nostra civiltà nel Rinascimento: il Rinascimento aveva infatti affermato il diritto alla vita bella ed eroica e alla libera espansione della personalità, ed era stato dominato da grandi personaggi, tra i quali spiccava il solitario genio di Michelangelo. Era l’epoca che, con le sue virtù umane e finezze culturali, si contrapponeva alla volgarità e al materialismo del presente.
Anche la Classicità è considerata un valore riconosciuto e riconquistato dal Rinascimento. Più di una volta Sartorio afferma il primato della scultura tra le arti, per la forza espressiva che ne fa un equivalente della parola: nel gruppo dell’Idioma Unificato, quindi, l’artista porta sulle spalle una grande riproduzione dell’Aurora di Michelangelo, perché “la scultura è una continuazione della parola e la lingua italiana è scultorea”.
Il concetto viene ribadito nell’autoritratto di Aristide Sartorio, con l’artista che offre all’Italia una statuetta d’oro, “immagine della bellezza”. Rappresentandosi come l’artista dell’epoca aurea della Rinascenza in cui avrebbe voluto vivere, Sartorio appagava idealmente un’aspirazione centrale nella sua poetica, ossia l’insoddisfazione per la società contemporanea, da lui giudicata meschina e volgare. Di fronte ad una società corrotta e rammollita, Sartorio manteneva intatto nella sua pittura il misticismo e la spiritualità di quelle mitiche epoche di gloria: l’artista di identificava così con i Maestri del Rinascimento.
Quale seguito delle doti spirituali spiccano, tre per parte, sei “virtù popolari”, introdotte dalle città, loro “muse ispiratrici”: si tratta di gruppi serrati e articolati di fanciulle avvolte in panneggi in atteggiamenti di danza, ripetuti nei raccordi angolari come custodi delle porte d’Italia. Con queste figurazioni Sartorio tradusse in simboli moderni lo spirito collettivo e popolare, in sintonia con il clima politico del momento: l’accento sulle città, immagini di bellezza e giovinezza, alludeva all’importanza che la vita urbana aveva assunto nell’età giolittiana per l’accrescersi della piccola borghesia cittadina col fenomeno dell’urbanesimo, trasformando le città in “elementi vitali della nostra resurrezione nazionale”.
I nudi di due lavoratori che rialzano una colonna abbattuta, simbolo dell’edificio della civiltà, rappresentano la Costanza, mentre la Fortezza è rappresentata dall’energia che vince la forza bruta, con l’eroe che doma un toro e due giovani che si stringono le mani. La Giustizia è il personaggio con lo sguardo coperto, in atto di separare due contendenti, ed è anche il poeta che difende un giovinetto, raffigurante simbolicamente giovane popolo italiano: “la nostra essenza nazionale fu sempre difesa, prima che dalle armi, dal valore della parola”, chiarì Sartorio. L’Ardire è la spinta dell’ignoto verso nuove conquiste, con la presenza beneaugurante della Vittoria sulla prora della nave. Nel rappresentare la Forma come azione di plasmare, facoltà del “genio della nostra stirpe di esprimere il disegno delle cose e delle anime”, Sartorio ribadì l’idea della superiorità della forma scultorea. Infine la Fede, una figura femminile che sostiene la sfera del destino entro cui arde inestinguibile la fiamma dell’esistenza, rappresenta la virtù suprema che fa offrire all’anima popolare la vita in olocausto.
È importante sottolineare questa particolare iconografia delle virtù, poiché esse rappresentano l’unità di misura entro cui il popolo può agire, ossia veri e propri strumenti dì controllo per incanalare forza e pulsioni verso alti ideali, riportandole entro le direttrici della politica nazionale.
SARTORIO ED IL RISORGIMENTO
Il passaggio dalla parete curva alla parete retta avviene con soluzione di continuità attraverso le due scene simmetriche e simili delle città che sostengono le porte d’Italia, introducendo la visione delle vicende epiche del popolo italiano per ricordare “ai rappresentanti elettivi della nazione come abbiamo strappato ai nemici, lembo a lembo, il suolo della patria”.
Avverso alla pittura di storia e poco interessato al ritratto, Sartorio trasse ispirazione, per la rappresentazione dei momenti salienti, dalle strofe degli inni patriottici del Risorgimento: lo scopo di Aristide Sartorio fu di rappresentare non l’avvenimento in sé, ma “il momento psicologico che lo produsse e le forze ideali che lo alimentarono. Al centro, l’ara italica si apre e i morti risorgono per unirsi ai combattenti; si alza il sole della libertà in corrispondenza col disco solare alle spalle della Giovane Italia. Ai lati, due affollate scene di lotta: la resistenza ai Barbari invasori aizzati dalle Furie e l’eroismo comunale, le battaglie del Risorgimento, l’esaltazione del Piemonte e il trionfo del tricolore”.
Ai Barbari Sartorio oppose l’immagine del “giovane popolo italiano”, per il quale la gioventù stessa era garanzia di nuove affermazioni. Questa idea astratta e positiva di popolo nasceva dalla sensazione di sicurezza ed ottimismo sorta dalla crescita della borghesia imprenditoriale, dalla favorevole congiuntura economica e dallo slancio industriale promosso da Giovanni Giolitti. In tal senso, una così importante opera decorativa, all’interno dell’edificio che rappresentava “la più felice conquista e la più sicura guarentigia della vita civile”, era la conferma che “ogni costruzione destinata ad esprimere un’alta funzione di vita nazionale doveva essere pensata anche come estrinsecazione ed esaltazione della ininterrotta tradizione artistica della nostra gente” e che “nessuna altra glorificazione poteva essere compiuta se non integrata e abbellita dal sorriso dell’arte”.
Questa intesa apparentemente perfetta tra arte e Stato rappresentava la realizzazione delle aspirazioni di quel mondo artistico che, fin dai primi anni postunitari, aveva chiesto allo Stato di sostenere l’arte promuovendo opere pubbliche e decorazioni, sul modello di Parigi e dei mecenati del passato. Sartorio voleva porre rimedio alla degradazione dell’arte, determinata dalla produzione commerciale e dall’indifferenza del pubblico, attraverso una generazione di artisti “animosi e forti, coraggiosi e combattivi” in grado di dominare l’opinione pubblica.
LA POETICA DI ARISTIDE SARTORIO
Aristide Sartorio, nel suo cuore, sentiva di far parte di questa elite artistica: fin da giovanissimo copiava le sculture classiche nei musei ed esaminava i tentativi di pittura preraffaellita, finendo per aderire al concetto dannunziano di opera d’arte come opera di bellezza, che si stringe in fraterna alleanza con la poesia.
Sartorio era pienamente dentro al clima simbolista e il motivo centrale delle sue opere era quello dell’eroe (in cui lo stesso artista amava raffigurarsi) diviso tra l’aspirazione ad alti ideali e la passione distruttrice incarnata dalla figura femminile. Sartorio era infatti contraddistinto dall’idea ricorrente dell’esistenza di un elemento malefico che tormentava, schiacciava e distruggeva tutta l’umanità: era un’idea che rifletteva in pieno lo stato d’animo di delusione dei giovani intellettuali, nel momento di crisi della società italiana tra la caduta di Crispi e la vigilia della disfatta di Adua, insofferenti della mediocrità degli obiettivi della classe politica e dello scadimento dei valori morali.
Ecco le opere di Sartorio esposte, ad esempio, presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma: quadri carichi di una oscura inquietudine, con l’evidente disfatta dell’eroe, sconfitto nelle sue alte quanto vaghe aspirazioni, con i nudi maschili giacenti ai piedi di splendide immagini femminili indifferenti, in un ambiente di natura ostile e minacciosa. In queste opere la figura umana è enfatizzata, disegnata e modellata con forte risalto plastico, in modo che i corpi acquistino valore di simboli e di veicoli per comunicare idee. Sartorio perviene allo stile nel senso dannunziano del termine: esso è il simbolo perfetto, l’indistruttibile impronta del genio sulla materia dominata.
Nel fregio per l’aula di Montecitorio, il soggetto stesso agevola l’ostentazione di virtuosismi nelle pose e negli scorci e di una disinvolta padronanza di un immenso patrimonio di arte da museo. Il fregio si impone agli occhi dello spettatore per l’unità del quadro decorativo, con una fascia pittorica serrata e ritmata come una struttura architettonica.
Il colore ha un ruolo fondamentale per l’effetto di insieme, integrando al meglio la fascia pittorica nell’architettura. Sartorio impiegò una tavolozza molto ristretta (ossidi di ferro, solfuro di cadmio, terra verde, rossa e di Siena naturale) e poche note vivaci, con una grande maestria coloristica; con la distribuzione del colore ottenne effetti decorativi di insieme, in grado di sopperire allo scarso movimento prospettico delle figure, disposte tutte sullo stesso piano.
Di fronte al risultato finale, i critici rimasero decisamente molto colpiti, paragonando “questo immenso nastro di pittura a una grande squillante fanfara melodica”: Aristide Sartorio fu infatti in grado di alternare momenti di pathos tragico a rappresentazioni di fatti pacifici, quasi seguisse l’andamento di una sinfonia.
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