L’imperatore Domiziano

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L’IMPERATORE DOMIZIANO

Domiziano, “uomo dalle gambe povere”, doveva essere stato alto e bello in gioventù, e dei suoi capelli di adolescente doveva essere stato molto fiero se, diventato precocemente calvo, realizzò con dolore e nostalgia un breve opuscolo intitolato “L’arte di conservare i capelli”. Inviandolo ad un amico, ci aggiunse una dedica: “Non vedi come sono forte e bello anch’io? Eppure i miei capelli hanno un destino uguale ai tuoi, e sopporto con animo forte di vederli invecchiare mentre io sono ancora giovane; sappi che nulla è più grato ma anche più fugace della bellezza”.

Pensava alla caducità della vita, l’Imperatore Domiziano. Svetonio però, che con alcuni Cesari seppe essere davvero critico, raccontava che Domiziano si isolasse ogni giorno soltanto per acchiappar mosche, infilzandole con uno stiletto acuminatissimo: oggi ciò appare non tanto come una curiosa mania (nella leggenda, quasi tutti gli Imperatori romani avevano qualche piccola o grande stranezza…), ma come un vero e proprio bisogno di solitudine in quel Palazzo Imperiale contrassegnato da trame fosche e intrighi di potere.

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INFANZIA E GIOVINEZZA

Forse Domiziano, nell’infilzare le sue povere mosche, sentiva il bisogno di percepire se stesso quale padrone di tutte le creature viventi, lui che era stato prigioniero di un’infanzia povera, tanto povera che, a detta delle malelingue di Roma, fu costretto a prostituirsi per denaro, concedendo il proprio corpo ad altri uomini.

Di certo, sebbene questa informazione possa apparire esagerata, l’infanzia di Domiziano non si rivelò semplice: il ragazzo, assai timido, apparteneva infatti ad una famiglia piena di ambizione ma non altrettanto di mezzi né di gloria familiari, la gens Flavia, definita dal già citato Svetonio come “oscura e priva di antenati illustri”.

La sua giovinezza era trascorsa in tempi duri per Roma, ricchi di ancor più crudeltà del consueto; dopo la morte di Nerone, la lotta tra Galba, Otone e Vitellio si era svolta atroce come tutte le guerre civili. La morte, da cui Domiziano sarà a lungo superstiziosamente ossessionato, era stata per lui un quotidiano spettacolo con cui avere a che fare: Galba assassinato da un pugno di congiurati che dopo averlo sgozzato gli tagliarono la testa, Otone suicidatosi a trentotto anni, Vitellio strascinato in giro dai soldati di Vespasiano sulla Via Sacra nel Foro Romano, coperto di fango e di sterco, insultato e finalmente scarnificato vivo e buttato nel Tevere appeso a un uncino. Ce n’era abbastanza per dare a un giovane di famiglia ambiziosamente tesa al potere un’idea tetra assai della politica e della vita, di cui la mania della caccia alle mosche era solo un’innocua trasposizione.

Sorella della crudeltà è spesso la paura, e fu proprio quest’ultima ad accompagnare Domiziano per tutta la sua vita, fin da quella volta che, ancor giovinetto, si era dovuto rifugiare in Campidoglio e scapparne travestito da sacerdote, per evitare gli assalti rivolti al padre Vespasiano.

LA GENS FLAVIA

L’elezione al trono imperiale di suo padre Vespasiano lo liberò da quelle paure piccole, ma lo immerse in quelle grandi: essere dapprima figlio di Imperatore (Vespasiano) e quindi fratello di Imperatore (Tito) rappresentava infatti una condizione gravida di rischi, fossero anche solo i rischi del confronto.

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Intanto, bisognava render conto del perché lui non fosse grande come il padre Vespasiano, vissuto e morto solennemente con la grandiosità che nei Cesari morituri non si scompagnava mai da un compiaciuto istrionismo. Svetonio riferisce infatti di Vespasiano che, sentendosi vicino alla fine, si era levato dal letto “perché un imperatore deve morire in piedi” e aveva saputo unire al dolore per la fine della vita il sorriso del filosofo, con la celebre dichiarazione “Comincio a diventare un dio”.

C’era poi il confronto con il fratello Tito, la delizia del genere umano, di cui gli adulatori si eran presto dimenticati che in gioventù avesse fatto sgozzare un bel po’ di cittadini romani, che fosse divenuto celebre anche per le sue orge con gli eunuchi e che non fosse sfuggito alle grinfie dell’anziana regina Berenice. Il vantaggio di Tito, quasi fosse una precoce versione di James Dean, fu che egli ebbe la fortuna di governare per soli due anni, due mesi e venti giorni: pochi per “invecchiare male”, pochi per subire la solita deformazione del potere, trasformandosi agli occhi di contemporanei e posteri da delizia del genere umano a orribile mostro patentato.

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L’ELEZIONE DI DOMIZIANO

AI trono, Domiziano arrivò con una certa difficoltà, perché padre e fratello fecero a gara nel tenerlo lontano da esso. Nel suo breve regno, Tito gli lasciò il comando dei Pretoriani, ma lo tenne sempre d’occhio, offrendogli persino in moglie la figlia Giulia al fine di ingraziarselo; Domiziano preferì però diventarne l’amante piuttosto che il marito legittimo. Manifestando fin da subito quel pizzico di dissolutezza morale tipico delle famiglie imperiali.

Anche per questi dissapori fra fratelli, quando Tito morì nel settembre dell’81 d.C. la diceria sgorgò naturale come l’acqua da una sorgente: Domiziano aveva fatto avvelenare il fratello per succedergli sul trono. Questa volta però non fu Svetonio ad accreditare l’accusa, ma bensì altri due importanti storici romani come Tacito e Dione Cassio, che diedero le prime pennellate per il ritratto del nuovo “mostro”, entrambi incattiviti anche da inimicizie di famiglia.

Al di là delle probabili calunnie, è evidente che il giovane Domiziano, acquisito il potere e ritenendosi ormai “dominus et deus”, signore e dio, approfittò della sua duplice qualifica per sfogare i propri istinti, che non erano certo tutti innocenti. Abbandonò la letteratura di cui da giovane si era occupato, forse prendendo esempio dal suo predecessore Claudio che se ne era fatto una difesa e uno schermo, ma non lasciò l’amore per le donne e i giovanetti, una debolezza su cui agli storici come Svetonio e Tacito piaceva calcar la mano pesantemente, che parlano di passioni indomabili con frasi come “era solo con stupri e adulteri che usufruiva del suo rango”.

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PREGI E DIFETTI DI DOMIZIANO

Svetonio scrisse in ogni caso che, da principio, in Domiziano si mescolarono vizi e virtù, “fino a quando mutò in vizi anche le virtù”. Per Tacito, invece, il Princeps fu sempre “ostile alla virtù, invidioso della gloria altrui, maestro di ipocrisia, incline all’ira”. Non c’è da sorprendersi, essendo uno schema già visto con Tiberio o Nerone: si tratta di analisi più moralistiche che storiche, che miravano ad evidenziare in astratto la metamorfosi operata dal Potere, ma che poi in concreto rappresentavano il contrasto fra il potere dell’Imperatore e l’autorità del Senato.

Quel che si desume facilmente dalle cronache è che, fin dall’inizio del Principato, l’autorità del Senato venne letteralmente ignorata. Il Senato però, certo non scevro da corruzione ed invidie, si guardava bene dal prendere di petto il problema affrontandolo con decisione, preferendo il tradizionale costume del diffondere dicerie, favorire complotti e denominate l’Imperatore quale “tiranno”. Le simpatie di Domiziano, più che agli incartapecoriti senatori, andavano effettivamente alla borghesia giovane e fattiva, mettendo in secondo piano quella vecchia aristocrazia latifondista arroccata sui propri privilegi.

Se ad opporsi a Domiziano, oltre ai senatori, era anche la potente comunità dei Giudei, la contrapposizione più subdola si sviluppò entro le mura del Palazzo, capeggiata dalla moglie Domizia Longina, già amante del virtuoso Tito e poi, benché di stirpe aristocratica, del ballerino Paris. Un anno dopo la sua elezione a imperatore, nell’82 d.C., Domiziano la ripudiò, ma fu poi costretto a riprendersela appena due anni dopo per non inimicarsi troppo i grandi di Roma.

A dispetto delle critiche illustri, Domiziano non fu il pessimo Imperatore in grado di offuscare persino l’abiezione di Nerone, quale lo rappresentò Tacito, scrittore di parte senatoria e genero di quel Giulio Agricola di cui Domiziano aveva per gelosia stroncato la gloria militare. Svetonio, che pure non lo amava, dovette riconoscere che Domiziano possedeva, se non tutte, almeno molte delle qualità del buon capo di Stato. Aveva come Claudio, con il quale divideva come si è detto un serio amore della poesia, il senso profondo della giustizia, che rendeva “con diligenza e zelo, cassando sentenze sospette di intrigo”, perseguitando i magistrati corrotti e punendo severamente i delatori.

Domiziano era anche umano, qualità più alta della giustizia e rara perfino tra alcuni dei migliori Imperatori: per esempio, proibì l’usanza (che Vespasiano e Tito avevano largamente permesso) di castrare giovani ragazzi da immettere nel mercato degli eunuchi. Odiava nel verso senso della parola gli spargimenti di sangue, al punto che quando era ancor figlio di Imperatore sognava di vietare con un editto la macellazione dei bovini, basandosi su un verso delle Georgiche di Virgilio, che gli carezzava gli orecchi in mezzo al gran tumulto della guerra civile: “Prima che l’empia gente si nutrisse di uccisi giovenchi…”.

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Lo descrissero come avido e avaro, ma intanto, cosa inaudita ai suoi tempi, rifiutò perentoriamente le eredità di coloro che avessero figli. Lo si definì dissoluto, ed è palese che non fu esponente del monachesimo eremitico, ma in realtà Domiziano conservava un’alta idea della castità, della dignità della donna e della religione. Fu una vera e propria ferocia moralistica, di cui furono persino vittime le Vestali accusate di lussuria e di incesto, che Domiziano fece punire seppellendole vive e facendo flagellare a morte i loro amanti.

Seguendo le regole della propria morale, Domiziano si avventò contro gli adulteri e gli empi, i prevaricatori e i filosofi, confondendo, da vero Princeps, la sregolatezza con l’amore della libertà. Siccome era timido e arrossiva facilmente, fu facile per i suoi detrattori affermare che con i suoi rossori tentava di difendersi dalla vergogna di essere un Nerone peggiorato, uno che guardava le proprie vittime in faccia per assaporare le loro sofferenze e la propria abiezione.

I TRIONFI E L’AMMINISTRAZIONE

Domiziano era fiero della “sua” Roma, e pretese che essa restasse eternamente connessa al proprio nome. Ricostruì il Campidoglio incendiato, innalzò un nuovo tempio a Giove, eresse stadi e auditori musicali, esaltando in tal modo la propria grandezza assieme al nome della civiltà in cui sinceramente credeva e nella quale si rispecchiava.

Anche i quattro trionfi militari e le ventidue acclamazioni imperatorie rientravano in quella visione grandiosa della gloria dell’Impero. Fedele al suo intento denigratorio, Tacito scrisse che tutta Roma rise quando Domiziano celebrò nell’83 d.C. il trionfo sui Catti, ben sapendo che l’Imperatore aveva comprato uomini sul mercato “acconciandoli nelle vesti e nei capelli in modo da farli apparire soldati prigionieri”. Gli storici moderni, però, riconoscono ben altra portata alle sue imprese in Britannia, in Dacia, in Africa ed in Oriente: Domiziano lottava infatti su due fronti, all’esterno con i barbari ed all’interno col bilancio statale, lasciato in acque malsane dai suoi nobili predecessori.

Ed è qui, sulla questione del bilancio, che si acquistò i più accaniti nemici, essendo vero quel che sentenzierà Niccolò Machiavelli, ossia che gli uomini dimenticano più facilmente la morte del padre che la perdita del patrimonio. L’immagine del tiranno annoiato che infilzava mosche dovette forse nascere dal rancore per la puntigliosa oculatezza con cui Domiziano cercava e perseguitava gli evasori fiscali e imponeva una parsimoniosa economia nelle spese proprie e dei cittadini. Pretese di contrarre le spese dello Stato riducendo il numero dei legionari, inimicandosi in tal modo l’esercito. Si mise inoltre in testa che gli Italici dovessero sostituire la cerealicoltura alla viticoltura, e i contadini si ribellarono in una vera insurrezione, facendo circolare per Roma un distico che diceva: “Anche strappata fino alle radici, sempre la vite avrà frutti / Per libare sulla tua testa quando sarai sacrificato, o Caprone”.

Esigeva che i ricchi, e in particolar modo i Giudei, pagassero le imposte fino all’ultima moneta: la regola fu così rigida che, a detta di alcuni storici, svariati Giudei si convertirono pur di non pagare tasse così pesanti. Gli ebrei crearono così l’immagine di un Domiziano persecutore fanatico della nuova religione.

LA CONGIURA IMPERIALE

Furono però le tensioni con l’esercito a minare per sempre la vita di Domiziano. Ad un certo momento, infatti, i tempi divennero maturi per inserire nel tradizionale schema della vita dei Cesari il terzo e ultimo stadio: 1) il giovane imperatore forte e illuminato 2) metamorfosi del leone generoso in iena attraverso la maledizione del Potere 3) la congiura che castiga e ripara.

Giunse infatti anche questa volta la congiura, puntuale come un temporale estivo, preparata dall’imperatrice Domizia Longina, la moglie cacciata di cuore e ripresa per forza: il suo busto di Villa Albani la fa apparire non bella, con un naso lungo e non elegantemente aquilino, bocca piccola e puntigliosa. Bisognava eliminare il tiranno, ma non prima di avere in pronto un successore: fu scelto Nerva, un anziano aristocratico che naturalmente aveva a più riprese proclamato la sua lealtà verso Domiziano.

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Domiziano aspettava. Nella visione retrospettiva della storia, si potrebbe affermare che egli si preparasse all’imminenza dell’assassinio come se fosse un rito tradizionale, quasi si trovasse all’interno della trama di una classica tragedia greca. Faceva gran conto degli oroscopi, interrogava indovini, quando si aggirava per il Palazzo incedeva sospettoso guardandosi alle spalle. Una notte sognò Minerva, la sua dea prediletta, che uscita dal sacrario gli diceva di non poterlo più proteggere perché Giove l’aveva disarmata.

L’astrologo di corte Ascletarione, che aveva diffuso previsioni nere sulla sua prossima fine, fu condannato a morte, ma prima dovette rispondere a una domanda dell’Imperatore: “Quale sarà la tua fine, Ascletarione?”.

“Verrò dilaniato dai cani”, rispose l’astrologo.

Domiziano, che come tutte le persone superstiziose pretendeva di fare il furbo col destino, ordinò che l’astrologo fosse seppellito con ogni cura al riparo dai cani, al fine di provare che quell’astrologia era menzogna. Essendosi però abbattuto un temporale sul rogo, il cadavere semicombusto fu disseppellito e i cani lo fecero a pezzi.

Inoltre, per mesi e mesi di quel 96 d.C., fulmini caddero dappertutto su Roma, colpirono il Campidoglio e il tempio della gens Flavia, penetrando persino nella camera da letto dell’imperatore. A Domiziano non restava che rassegnarsi, tanto che più di una persona sentì l’Imperatore urlare al cielo guardando i temporali “E colpisca una buona volta chi vuole!”.

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Domiziano cercava di evitare le congiure, i tranelli, le infide carezze subdole. Nei terrori notturni, saltava giù dal letto sudato fradicio. Il suo ultimo gesto fu un tentativo puerile di frodare il destino con un’offerta minima al posto di quella massima: si trappò una verruca che aveva sulla fronte e, quando vide il sangue, esclamò: “Voglia il cielo che questo sia sufficiente!”.

Non lo fu. Stefano, amico della sorella, lo assalì nella sua camera da letto, mentre altri congiurati lo finirono a pugnalate. Era nel suo quarantacinquesimo anno di vita, il quindicesimo del suo Impero.

A funerali avvenuti si svolse la solita festa dell’odio e dell’indifferenza. Il popolo, che a queste cose aveva ormai fatto il callo, dopo l’iniziale commemorazione badò ai fatti propri; i Pretoriani, dai quali era stato eletto, smisero ben presto di protestare dietro lauto compenso; i legionari reagirono, ma troppo tardi, e allora si contentarono di pretendere che l’assassinato fosse proclamato dio, come il grande Augusto e come Claudio.

Quanto ai senatori, esultarono ancora una volta nella loro dignità a pericolo scomparso: vilipesero il morto, acclamarono il successore Nerva, distrussero ritratti e insegne di Domiziano per sostituirli con altri. In queste vergognose sceneggiate, erano spesso i personaggi più umili ad assurgere al rango di piccoli grandi protagonisti: “La balia Fillide fece cremare il cadavere di nascosto, di nascosto portò le ceneri nel tempio della Casa Flavia, le mescolò con le ceneri di Giulia figlia di Tito”, annotò Svetonio.

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La pietà della balia apparirebbe quasi materna, ma la critica volle punzecchiare Domiziano anche sulla povera Giulia, una bella nipote che probabilmente l’Imperatore avrebbe voluto sposare e che invece preferì dare in sposa a Tito Flavio Sabino, per poi diventarne l’amante. Il ritratto di lei, inciso su di un sesterzio, la rappresenta con le guance tondeggianti, un naso grazioso, una bella bocca allegra. Secondo Svetonio, Domiziano “l’aveva amata con tanto amore da essere la causa della sua morte, avendola costretta ad abortire mentre era incinta di lui”.

Un tiranno, un pusillanime, un libertino: ecco come i detrattori descrissero Domiziano. È però probabile che sul cuore di quell’uomo la balia Fillide, confondendo ceneri con ceneri, la sapesse più lunga di Svetonio e Tacito.

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