Opus Sectile – Pavimenti della Antica Roma

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OPUS SECTILE – I PAVIMENTI DELL’ANTICA ROMA

Visitando i musei e le aree archeologiche di mezza Italia e ritrovandosi di fronte ad un mosaico di epoca romana di buona fattura, policromo e magari anche figurato, sarebbe sorprendente scoprire come non fosse certo quello il modo più raffinato e dispendioso per coprire il suolo di un edificio.

Chiunque sarebbe difatti portato istintivamente ad esaminare, esaltandone la complessità, i molteplici aspetti connessi alla produzione di un raffinato mosaico pavimentale di epoca romana: la varietà praticamente infinita delle tessere di pietra colorata (talvolta anche in pasta vitrea o in altro materiale), gli interminabili e ripetitivi allineamenti delle intelaiature geometriche, il posizionamento obbligato del singolo tratto per ottenere la resa figurativa, lo sforzo di mantenere uno stesso piano orizzontale per migliaia e migliaia di elementi non sempre regolari.

Tutto ciò potrebbe far pensare, analizzando i singoli aspetti della realizzazione dell’opera musiva, che solo l’aristocrazia più benestante potesse permettersi un’abitazione interamente pavimentata in mosaico. Questa valutazione è però in gran parte sbagliata: per averne riprova, basta osservare quanto siano frequenti i mosaici non solo nelle domus romane, ma anche in alcune insulae e talvolta persino negli ambienti a destinazione commerciale o artigianale.

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MOSAICO ED OPUS SECTILE

L’analisi di quanto è sopravvissuto fino ai nostri giorni dimostra in realtà che i pavimenti marmorei a grandi lastre omogenee o a intarsio di marmi diversi, in genere policromi, ossia il cosiddetto Opus Sectile, erano di gran lunga più ricercati e più preziosi di quelli musivi.

Possiamo rendercene conto facilmente esaminando l’insieme dei pavimenti di due parchi archeologici simbolo dell’Antica Roma, come quello di Pompei e quello di Ostia, due località molto diverse fra loro per posizione, funzione e durata (Pompei cessa di esistere nel 79 d.C. a causa della ben nota eruzione del Vesuvio, mentre Ostia giunge, fra alti e bassi, fino al V secolo d.C.) ma analoghe per l’eccezionale conservazione del tessuto urbano e di gran parte degli edifici. In entrambi i casi, ossia tanto a Pompei quanto a Ostia, le superfici pavimentali rivestite di marmo risulta assai meno frequenti rispetto a quelle rivestite in mosaico: in aggiunta a ciò, nei casi in cui tali tipi di pavimento coesistano in una stessa abitazione, quello marmoreo si trova spesso destinato ad ambienti importanti o a zone contrassegnate da maggiore eminenza.

Che i marmi fossero considerati un materiale di lusso è d’altronde documentato ampiamente dalle fonti antiche, tanto che è proprio dagli scrittori antichi che si è ricavato il nome che a quei tempi si usava per indicare gli intarsi marmorei pavimentali: sia Vitruvio (De Architectura, VII, I, 3) che Svetonio (Divus lulius, 46) usano infatti per essi l’espressione “sectilia pavimenta” (dal latino sectilis, ossia segato, tagliato a lastre), mentre Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 184 e 189) usa il termine “lithostroton” (dal greco lithos, marmo/pietra, e stronnumi, ossia stendere/lastricare).

I due termini aiutano anche a dettare una cronologia nell’utilizzo di tale decorazione. Il fatto che Vitruvio citi i sectilia pavimenta (o, come si usa dire oggi, i pavimenti in opus sectile) mostra chiaramente come essi esistessero già nell’epoca in cui egli scriveva il De Architectura (cioè fra il 44 ed il 31 a.C.), mentre Plinio, nella Naturalis Historia pubblicata nel 77 d.C., afferma persino che essi furono introdotti ancor prima, ossia durante il governo di Silla, cioè intorno all’80 a.C.

I PRIMI PAVIMENTI IN OPUS SECTILE

Indipendentemente da queste leggere discrasie cronologiche, i più antichi resti di pavimenti in opus sectile risalgono alla prima metà del I secolo a.C. e di solito, anziché marmi, impiegano tendenzialmente pietre locali, materiali di impasto più tenero e malleabile come calcari o scisti di colore bianco, verde, grigio, nero (ardesia) e rosso (anche rosso antico di importazione). Sono per l’appunto questi i materiali che gli archeologi hanno ritrovato negli esempi più antichi, come ad esempio il celebre grazioso riquadro con disegno geometrico a cubi prospettici all’interno della Casa dei Grifi, sul colle Palatino.

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In età cesariana ed augustea, i marmi di importazione, già presenti a Roma da qualche decennio ma fino ad allora usati piuttosto limitatamente, divengono di uso comune per i pavimenti, segati in sottili lastre che vengono giustapposte in intarsi policromi. Di tale fase tardo repubblicana ed imperiale ci restano molti esempi ad ampio modulo disegnativo, destinati quindi a grandiose opere pubbliche augustee come il Tempio di Marte Ultore, la Basilica Iulia e lo stesso Foro di Augusto.

Non troppo abbondanti, e comunque spesso mal conservati, sono gli esempi a modulo disegnativo minore, destinati cioè all’uso privato, in cui talvolta persiste ancora l’impiego di pietre tenere accanto a quello dei marmi.

I TIPI DI MARMO

In questo primo periodo, pur se i disegni erano relativamente semplici e la tecnica del marmorarius era ancora in fase di affinamento, i marmi colorati disponibili sul mercato erano già innumerevoli: in particolare, erano già quasi tutti in uso i materiali che diventeranno poi sempre più protagonisti della decorazione policroma parietale, pavimentale ed architettonica per almeno cinque secoli, fino alla caduta dell’Impero.

Proviamo ad elencare i materiali più prestigiosi in assoluto a livello decorativo:

  • Il Synnadicum (detto dagli scalpellini rinascimentali e moderni pavonazzetto), proveniente dall’Asia Minore.
  • Il Chium (detto portasanta) dall’isola greca di Chios.
  • Il Carystium (detto cipollino) dall’isola greca di Eubea.
  • Il Luculleum (detto africano) dall’Asia Minore.
  • Il Numidicum (detto giallo antico) dalla Numidia.
  • Il Claudianum (detto granito del Foro) dall’Egitto.
  • Il Taenarium (detto rosso antico) dal Peloponneso.

Meno frequentemente usati nei pavimenti, anche se certamente disponibili, erano in questo primo periodo il Porphyreticum (detto porfido rosso) proveniente dalla Tebaide e il Lacedaemonium (detto serpentino) da Sparta. Questi due porfidi, forse per l’eccessiva durezza e quindi per le intrinseche difficoltà di lavorazione, dovettero attendere ancora alcuni decenni prima di diventare i materiali più prestigiosi e più qualificanti dei sectilia.

DA AUGUSTO A NERONE

Dopo l’età augustea la tecnica, giovandosi delle prime vaste sperimentazioni, si perfeziona notevolmente; con la dinastia giulio-claudia (14-68 d.C.) si incrementa infatti l’uso generale del marmo e si diffonde ulteriormente l’arte dell’intarsio marmoreo pavimentale che in quell’epoca raggiunge livelli qualitativi molto elevati, con picchi presumibilmente raggiunti in situazioni purtroppo non pienamente confermabili, come ad esempio per quanto concerne la decorazione delle navi di Nemi da parte di Caligola, che certamente non dovette badare a spese.

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È certo tuttavia che alla fine di quel periodo, ossia durante l’Impero di Nerone, iniziarono a diventare canoniche soluzioni compositive che, anche attraverso ulteriori perfezionamenti ed aggiustamento, contraddistinsero la decorazione pavimentale marmorea dell’Impero per altri quattro secoli.

I resti del palazzo che Nerone costruì sul Palatino, e che dopo circa un ventennio vennero ricoperti dal Palazzo Imperiale eretto da Domiziano, conservano ancor oggi alcuni frammenti dei sectilia che lo decoravano, mirabilmente esposti all’interno del primo piano del Museo Palatino: si tratta purtroppo di due piccoli lacerti di estensione minima, ma comunque sufficienti a ricostruire l’intera stesura decorativa poichè il disegno era in genere organizzato per unità modulari che ritmicamente si ripetevano componendo un tappeto o una fascia a motivo continuo.

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GLI ABBINAMENTI CROMATICI

La complessità degli schemi geometrico-vegetali, ricchi di elementi curvilinei, richiedeva una lavorazione tecnicamente perfetta. Infatti, il taglio delle singole lastre marmoree doveva essere accuratissimo per permettere un intarsio che non lasciasse spazi alle connessioni; ciò era reso ancora più difficile dalla presenza dei porfidi, la cui durezza non facilitava certo il taglio esatto e l’arrotatura dei bordi dei singoli elementi dell’intarsio. L’alto livello qualitativo del risultato finale dipendeva quindi dalla selezione di marmi le cui caratteristiche (tonalità, omogeneità, malleabilità) permettessero un raffinato studio degli accostamenti cromatici.

Proprio la passione per l’elegante cromatismo lasciò un’impronta profonda nel gusto pavimentale romano, che conservò per secoli due specifici abbinamenti preferenziali: da un lato il serpentino con il giallo antico, dall’altro il pavonazzetto col porfido rosso.

Oggi, nell’osservare questi intarsi marmorei in opus sectile con l’occhio del gusto moderno, esso appare in qualche caso un po’ “chiassoso”, soprattutto se immaginato in ambienti non molto vasti aventi le pareti rivestite nella medesima maniera. All’epoca, però, il prestigio decorativo veniva tanto dalla precisione dell’intaglio quanto dalla disponibilità delle pietre più rare, delle macchie più pregiate, delle tonalità più calde e più fredde.

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DA NERONE AD ADRIANO

La facile asportabilità dei marmi antichi, con conseguente riciclo degli stessi, ci ha privato di gran parte della decorazione pavimentale della Domus Aurea neroniana nella zona superstite del Colle Oppio: tuttavia i disegni di epoche passate che riproducono tratti pavimentali oggi perduti, e persino le sole impronte che ancor oggi si conservano, hanno permesso agli archeologi di comprendere la ricchezza e l’originalità del repertorio.

A dispetto della rinomata grandiosità della Domus Transitoria e della Domus Aurea, l’importazione dei marmi a Roma sembra raggiungere un apice quantitativo dopo Nerone, cioè verso la fine del I secolo d.C., epoca in cui tuttavia la produzione di pavimenti in opus sectile si va orientando verso schemi semplici, quasi esclusivamente geometrici, e per di più con elementi marmorei che ormai tendono a evitare la forma curvilinea. Questo rigido geometrismo, non ancora dominante nell’età flavia (si vedano per esempio le impronte dei pavimenti conservatesi nella villa di Domiziano a Sabaudia), diviene invece assai evidente sotto l’Imperatore Adriano che, nella splendida Villa Adriana a Tivoli,  ha lasciato un (seppur assai frammentario) campionario pavimentale che ha permesso nei decenni agli archeologi di ricostruire quasi tutto il “suolo marmoreo” della villa, nella quale la decorazione a mosaico era presente soprattutto negli edifici destinati al personale di servizio, come i cosiddetti hospitalia (probabile sede del corpo di guardia) e le Grandi Terme.

Adriano, imperatore dal gusto estetico decisamente raffinato, amava la varietà di colore, i contrasti netti e anche il recupero colto di disegni e materiali tipici dei sectilia più antichi.

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IL TARDO IMPERO

Tra il III ed il IV secolo d.C. sembra sorgere un gusto nuovo, che recupera deliberatamente la cultura neroniana aggiungendovi anche nuove sperimentazioni, il tutto però con una formalità tecnica del taglio decisamente sommaria.

Esaminando alcuni edifici di Ostia Antica, come la Domus di Amore e Psiche, ma soprattutto la straordinaria Domus di Porta Marina, oggi ospitata presso il Museo dell’Alto Medioevo all’EUR, si nota come tornino prepotentemente di moda i disegni complessi, gli elementi curvilinei ed i contrasti a base porfiretica: esaminando però specificamente il comparto del taglio, si nota come la tecnica non si attardi più nella minuziosa precisione dell’incastro e nella profilatura degli elementi, tanto che spesso le piccole lastre policrome non sono neppure arrotate ma solo sagomate a scalpello, con spazi di alcuni millimetri e figure non perfettamente combacianti.  

Alcuni elementi, poi, risultano composti da due o più pezzetti di marmo della stessa specie, ma contrassegnati da macchie o tonalità diverse, o in qualche caso di tonalità simili ma di specie diverse, arrivando persino ad affiancare materiali assai costosi ad altri ben più economici. Sembra potersi parlare, in questa situazione, di una sorta di “disattenzione tecnica”, che però non sembra casuale, ma bensì voluta e programmata: la sensazione è che l’artista cerchi di dare solo un’impressione generale di articolazione complessa, preferendo un effetto complessivo da godere nell’insieme rispetto ad una precisione tecnica minuziosa e millimetrica.

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Non si vuole ovviamente affermare con ciò che la qualità tecnica fosse sempre scadente: anche nei pavimenti del Tardo Impero si individua infatti una gamma di livelli qualitativi corrispondente a una maggiore o minore cura dell’esecuzione materiale, ma si ha talvolta la netta sensazione che una resa formale accurata fosse ritenuta superflua e talvolta considerata addirittura un ostacolo alla lettura d’insieme, quasi una distrazione nella percezione dei significati: ciò che si voleva mettere in evidenza era la grande copiosità di materiale marmoreo, simbolo di lusso e quindi di potere economico e politico.

SCOMPARSA E RICOMPARSA DEL MOSAICO

Forse è a causa di questa studiata ostentazione oppure, più semplicemente, in ragione della maggiore disponibilità di marmi che nel IV secolo si afferma, almeno nell’area urbana di Roma, una vera e propria moda del pavimento in opus sectile, con conseguente quasi totale scomparsa del mosaico tradizionale, che invece ricompare prepotente nel VI secolo, dilagando nel resto dell’Impero romano ormai cristianizzato e diventando il pavimento più comune delle basiliche cristiane.

A Roma, invece, come accennato, l’abbondanza di marmi importati e nel contempo la quantità enorme di lastre marmoree o di formelle pavimentali che potevano essere recuperate dalla demolizione degli edifici, avevano probabilmente diminuito il divario di prezzo tra mosaico e pavimento in opus sectile per cui logicamente si tendeva a preferire il più prestigioso e variopinto dei due, cioè quello marmoreo.

Non è un caso d’altronde che persino i rari mosaici di area romana realizzati fra la fine del IV secolo ed il V secolo d.C. fossero composti, spesso quasi integralmente, da tessere marmoree: i piccoli frammenti di marmo erano certo facili da ottenersi poiché costituivano gli scarti o gli avanzi di lavorazione della fiorente industria dei pannelli di opus sectile, destinati ormai anche al decoro delle pareti.

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IL RICICLO DEI MARMI

L’enorme quantità di marmi accumulata a Roma nei secoli dell’Impero non viene pero dimenticata, e diventa anzi oggetto di un recupero metodico, talvolta addirittura selvaggio, che alimenta una forte corrente di esportazione. I marmi provenienti da Roma viaggiano per terra e per mare, arrivando a Ravenna e Costantinopoli nel VI secolo, ad Aquisgrana nel IX secolo, a Salerno nell’XI secolo, a Palermo nel XII secolo e persino all’Abbazia di Westminster, a Londra (Westminster Abbey) nel XIII secolo, fino ad una sempre maggiore dispersione dal Rinascimento all’epoca moderna.

A fianco di questa massiccia migrazione dei preziosi materiali verso aree lontane ha luogo però, seppur in maniera discontinua, un altro tipo di dolorosa spoliazione, a cui quantomeno però non corrisponde un allontanamento dei marmi da Roma: si tratta di quella sorta di riciclo creativo dei marmi antichi che permise di creare capolavori straordinari, come i pavimenti cosmateschi di numerose chiese medievali di Roma (Trastevere ne è esempio straordinario) e persino il rivestimento di cappelle e luoghi sacri avvenuto in epoca barocca, come nel caso della Cappella Mignanelli in Santa Maria della Pace, forse rivestita con gli ultimi residui marmorei del Tempio di Giove Capitolino.

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