Ara Pacis

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ARA PACIS

Forse mai programma politico fu così nobilmente espresso come quello della pax imperiale romana voluta da Augusto, rappresentata da rigogliosi acanti, da figure matronali come Roma o la Terra Madre, da Enea con il capo velato che compie un sacrificio e da tutti gli altri motivi iconografici e decorativi che ornavano l’Ara Pacis, l’altare voluto dal Senato romano in onore di Ottaviano Augusto e inaugurato il 30 gennaio del 9 a.C.

Di tale monumento è possibile dare svariate letture, alcune maggiormente storiche, ed altre più simboliche. Alcuni studiosi hanno voluto vedervi persino una lettura astrologica: secondo tale tesi Augusto, che aveva fatto persino coniare una moneta con il suo segno zodiacale del Capricorno, volle che l’Ara Pacis fosse disposta secondo linee invisibili, segnate dal percorso degli astri.

IL RITROVAMENTO DELL’ARA PACIS

La prima traccia dell’Ara Pacis è un perduto disegno dell’incisore del XVI secolo Agostino Veneziano, allievo di Marcantonio Raimondi, che ricopiò un vasto frammento di lastra col cigno flessuoso dentro un larghissimo fregio floreale. Di tale incisione restano due esemplari, confrontabili al Cabinet des Estampes, uno dei quali reca anche la sigla AV.

Dunque, già all’inizio del XVI secolo era riapparso un piccolo frammento dell’obliato altare augusteo, seppellito da secoli nel luogo stesso dov’era stato edificato, ossia all’incrocio delle odierne vie in Lucina e del Giardino Theodoli, presso Palazzo Montecitorio. Quest’area del Campo Marzio, dove Augusto ed il suo genero Marco Agrippa avevano iniziato un’opera di intensa urbanizzazione, fu risistemata radicalmente nel II secolo d.C., innalzandone il livello con un grandioso terrapieno: l’Ara Pacis rimase allora su un piano più basso di quasi due metri, protetta da un muro in mattoni, e fu successivamente probabilmente inglobata all’interno della nuova urbanizzazione.

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Così, quando il cardinale inglese Ugo di Evesham costruì, alla fine del XIII secolo, il palazzo che servì per alcuni secoli quale residenza dei cardinali di San Lorenzo in Lucina, egli ne impiantò involontariamente le fondamenta, almeno in parte, sull’Ara Pacis. Rifacimenti e restauri del palazzo furono promossi a più riprese, e specialmente importanti dovettero essere, dopo il definitivo ritorno dei Papi a Roma, quelli voluti nel 1427 dal cardinale Jean de Rochetaille. Probabilmente, in questa occasione vennero alla luce alcuni frammenti dell’Ara Pacis, che andarono disperdendosi in misteriosi sentieri. Non per altro, nel 1569 il cardinale Giovanni Ricci di Montepulciano scriveva a Cosimo I, destinato a diventare ben presto Granduca di Firenze: “Di questi marmi gentili horamai non se ne trovano se non pochi”.

Tra l’altro, talvolta capitava che venissero acquistati frammenti senza rendersi conto del fatto che si trattasse di frammenti dell’Ara Pacis: di così ricco bottino, una sola lastra raggiunse Firenze, quella “dove vedrà una bella bizzaria che è tre figure, si crede che fussero fatte per tre elementi, ciò è Aria, Acqua, et Terra”. Il resto rimase a Roma, per lo più in quella villa al Pincio che il Ricci stava facendo costruire proprio in quegli anni, e che successivamente prenderà il nome di Villa Medici.

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In realtà si arrivò a trovare frammenti dell’Ara Pacis letteralmente ovunque. Nel palazzo cardinalizio in Lucina, passato nel 1624 in proprietà dei Peretti, nipoti di Sisto V, e poi fino al 1898 dei Boncompagni Ottoboni, duchi di Fiano. Nel 1628 una lastra con festoni venne riusata, capovolta, per la tomba di un vescovo alla Chiesa del Gesù; prima del 1772, una lastra ornamentale, simile a quella vista da Agostino Veneziano, svanì nel mercato inglese, dove venne trasferita per il tramite del noto restauratore Bartolomeo Cavaceppi; nel 1788, Pio VI comprò per le collezioni papali un rilievo con togati che era rimasto a palazzo Fiano.

Nel 1859, nuove scoperte casuali portarono altre lastre d’ornato nel cortile di Palazzo Fiano, e due teste finirono nel mercato antiquario viennese.

In poche parole, lentamente ma progressivamente l’Ara Pacis andava ricomparendo, ma se ne disperdeva sempre più l’unità, senza che l’identità di quei frammenti venisse sospettata da alcuno.

LA RICONNESSIONE DEI FRAMMENTI

Almeno un tentativo di riconnettere fra loro i rilievi allora noti fu fatto nella seconda metà del XVI secolo, per impulso di Ferdinando de’ Medici: di tale attività restano, a testimonianza, pochi fogli dispersi in parte al Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo ed in parte a Windsor.

In realtà, studiando i documenti relativi ai vari tentativi di identificazione, pare evidente come i frammenti fossero stati interpretati come rimanenze di un arco trionfale dedicato all’Imperatore Domiziano, con l’unica eccezione di Filippo Aurelio Visconti, che descrisse nel 1818 la lastra di villa Aldobrandini come “sacrificio della famiglia di Augusto, di ottima scultura e singolare”.

L’anno della “resurrezione” dell’Ara Pacis è il 1879: l’archeologo tedesco Friederich Carl von Duhn riunì i vari rilievi, attribuendoli all’Altare augusteo già noto dalle fonti; ed avanzando varie proposte ricostruttive, assieme al collega Petersen, a cui spettò il merito di aver individuato nel 1895 le due teste finite a Vienna. Nel 1898 il duca di Fiano donò allo Stato tutti i frammenti ancora in suo possesso (1898), mentre l’anno seguente si rinvenne la lastra riadoperata nel 1628 come pietra tombale presso la Chiesa del Gesù.

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I nuovi recuperi confluirono al neonato Museo delle Terme, mentre nel 1903 si decise di scavare sotto palazzo Fiano, recuperando così cinquantatré nuovi frammenti e rilevando la pianta del basamento ancora in situ: la sorpresa fu l’esistenza di due porte anziché una, dettaglio che sconvolse tutte le ricostruzioni sino allora proposte.

Si riprese quindi a scavare attorno al 1937, sull’onda delle celebrazioni fasciste della Romanità e dell’attesa del Bimillenario Augusteo: cavalletti di cemento armato e nuove apparecchiature permisero di estrarre altri sessanta frammenti. Nel 1938 venne rapidamente eseguita la ricomposizione fisica del monumento, riportando a Roma le lastre degli Uffizi, ma non le cinque lastre con festoni poste a decorazioni di Villa Medici ed il frammento esposto al Louvre: tali frammenti vennero realizzati in gesso, mentre l’Ara Pacis veniva collocata fra il Tevere e il Mausoleo di Augusto.

LA STRUTTURA DELL’ARA PACIS

Le lacune ancor oggi presenti non impediscono di leggere l’Ara Pacis come un insieme coerente per concezione, stile e significato. La perdita più drammatica è probabilmente quella dei ritratti: anche il volto di Augusto è parzialmente mutilato, risultando però ancora riconoscibile, come molti altri personaggi che lo accompagnano sul lato Sud del recinto.

Dove, invece, ricorrono temi che appartengono a serie iconografiche altrimenti note (come ad esempio sul lato Ovest, con Romolo e Remo allattati dalla lupa), bastano pochi frammenti a permetterne il riconoscimento. È poi perfettamente ricostruibile il sistema decorativo dell’interno del recinto, agghindato con ghirlande sospese a bucrani nel registro superiore ed un’alternanza di lesene ed incavi nel piano inferiore.

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All’esterno i pilastri sono tutti ornati da un’identica candelabra, e il registro inferiore accoglie una vegetazione d’acanto di grande esuberanza, contenuta però in un’implacabile simmetria, a cui sfuggono qua e là qualche lucertola, una rana ed un nido di uccelli. Perfino i cigni appollaiati ad ali spiegate sugli steli osservano, incurvando il collo, una norma ineludibile di araldica eleganza. Una fascia a meandro separa questo dal registro superiore, ornato di figure; ad essa corrisponde, all’interno, un’uguale fascia decorata a palmette.

Il nome di Ara Pacis spetta però non al recinto, ma bensì all’altare che vi è chiuso all’interno, il cui fregio descrive un sacrificio. Perché quindi dare così tanta importanza al recinto, se il vero luogo sacro si trova all’interno di esso? La risposta ci viene fornita da due monete, coniate da Nerone e Domiziano, che nel rappresentare l’Ara Pacis, con l’indicazione del nome per iscritto, non mostrarono l’altare, ma il recinto. I due celebri successori di Augusto, citando l’Ara Pacis come evidente allusione alla politica del fondatore dell’Impero, hanno indicato l’esterno del recinto come privilegiato luogo di affissione di un sistema decorativo che si leghi ad una chiara espressione di programma politico.

IL LATO EST DELL’ARA PACIS

Il pannello a sinistra della porta sul lato Est, che per la già citata “bella bizzaria” della composizione meritò di raggiungere per primo Firenze, è ancor oggi probabilmente il più famoso (ed il più controverso) dell’Ara Pacis. Secondo la tesi maggioritaria, la figura che vi troneggia al centro, sorreggendo e nutrendo due putti fra spighe rigonfie, frutta e fiori, sarebbe la Terra Madre: all’ombra della sua fecondità tranquilla e regale, sostano placidamente una pecora e un bue. Ai lati si vedono due figure più piccole: quella di destra cavalca, sopra onde increspate, uno squamoso serpente di mare, mentre l’altra, seduta sul dorso di un cigno, trasvola un ciuffo di canne palustri. A destra della Terra si vede quindi simbolicamente il mare, a sinistra l’aria: aveva probabilmente ragione il cardinal Ricci nel credere “che fussero fatte per tre elementi, ciò è Aria, Acqua, et Terra”.

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Sullo stesso lato orientale, a destra della porta, pochissimi frammenti suggeriscono una composizione più complessa da identificare, con la personificazione di Roma seduta al centro su un cumulo d’armi nemiche e accanto a lei, da un lato e dall’altro, il Genio del Popolo e quello del Senato romano. Considerata la lacunosità del pannello, si tratta solo di una fra le molteplici congetture ad esso connesse.

IL LATO OVEST DELL’ARA PACIS

Al centro del fronte Ovest del recinto si apre una larga scalinata d’accesso, da cui entrava il sacerdote per poi proseguire sui gradini dell’Ara Pacis fino a raggiungere l’altare.

Dei due pannelli, quello a sinistra è per gran parte perduto; tuttavia, con ogni probabilità, esso mostrava Romolo e Remo allattati dalla lupa, fra il pastore Faustolo appoggiato al suo bastone e Marte, divino padre dei gemelli.

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A destra della porta occidentale, un Enea nobilmente avvolto nella toga ma a petto nudo, sta compiendo un sacrificio a capo velato. La mano destra è tesa su un rustico altare mentre sullo sfondo, sopra un rialzo roccioso, un tempietto accoglie i Penati. Due giovani camilli lo assistono nel rito, l’uno reggendo un piatto colmo di offerte, e l’altro spingendo in avanti una scrofa, evidentemente la vittima sacrificale. Dietro Enea si nota un’altra figura, probabilmente il figlio Ascanio, che si appoggia al bastone: secondo alcuni studiosi, la sua testa potrebbe essere in realtà quella del Genius Populi Romani, di cui si è accennato nel pannello sul lato Est.

LA PROCESSIONE DEI LATI NORD E SUD

Sui lati Nord e Sud, non essendoci porte, si è potuta disporre una larga processione di togati, caratterizzata da volti ben delineati, passi cadenzati, gesti di saluto e di conversazione. Tutti procedono lentamente verso Ovest, ossia versoi la porta fiancheggiata da Enea e da Marte): si tratta però di una composizione elegantissima, con i protagonisti che talvolta vagano con lo sguardo, si attardano nel cammino, si voltano indietro. Questo atteggiarsi in modo sempre diverso non toglie al corteo solennità o vigore, ed anzi fa risaltare le singole figure disseminando qua e là singoli episodi che però non sono sconnessi l’uno dall’altro, ma complessivamente connessi nel corso del lento incedere.

Su entrambi i lati, donne e bambini si mescolano ai togati: è la corposa famiglia di Augusto che fa pubblica comparsa, con i volti che un tempo sarebbero certamente stati facilmente riconoscibili per i contemporanei del Princeps, e che invece talvolta oggi portano a dubbi interpretativi. Le figure sono distribuite secondo precise rispondenze col sottostante fregio floreale, quasi che le pieghe degli abiti si riflettano nei girali d’acanto.

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LA PAX ROMANA

Animali, vegetali, mitologia, processioni. Invano però, fra queste decorazioni, si cercherebbe la figura che dà il nome al monumento: sull’Ara Pacis, la Pace non c’è. Nell’Antica Roma, la Pax era già comparsa come dea in monete coniate da Cesare e da Augusto: perché quindi essa non è stata rappresentata nella decorazione dell’altare ad essa dedicato?

Più di uno studioso ha tentato di rispondere a questa domanda: alcuni hanno immaginato che essa potesse essere presente in una delle aree più lacunose del recinto, altri hanno invece affermato che la Terra Madre potrebbe essere riconsiderata come la Pax. Il fatto è che la dea a cui l’Altare è dedicato non dovrebbe essere in posizione marginale, ma bensì predominante, sopra l’altare principale.

Il fatto è che Augusto non volle costruire un tempio: egli scelse invece di contenere l’altare in forme e dimensioni modeste. Quando il sacerdote compiva i sacrifici sulla mensa, il suo sguardo poter a cadere solo sull’interno del recinto, dove le lastre marmoree simulavano in basso uno steccato di legno ed in alto una scia di ghirlande: in tal modo veniva ricreato uno spazio sacrale rustico, reso ancor più vivido dai colori che certamente ricoprivano l’Ara Pacis.

Presentandosi come restauratore dei costumi e dei culti, amante della rusticitas dei Patres, Augusto la tradusse però in nuova eleganza di linguaggio: legno fattosi marmo e marmo fattosi legno, riconoscendo allo stesso modo la preservata austerità degli antichi e il nuovo decoro della Roma di Augusto.

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LE CONNESSIONI DECORATIVE

Nell’Ara Pacis, la rigorosa organizzazione delle partiture, dei fregi e delle scene invita ad osservare sia il recinto che l’altare, al fine di cogliere i nessi per vedere e per capire l’impianto decorativo. I quattro pannelli a lato delle porte, quasi fossero altrettanti quadri simmetricamente disposti tutt’intorno, invitano a intendere la decorazione esterna del recinto come un unitario programma iconografico, sia storico che simbolico.

Ad Ovest, ai lati dell’ingresso principale, Enea che sacrifica ai Penati e la Lupa che allatta i divini figli di Marte compendiano la “preistoria di Roma”, il primo arrivo dei Troiani nel Lazio (Enea) e la nascita del fondatore Romolo. Similmente, ad Est, si notano due figure egualmente matronali e simboliche, la Terra Madre e Roma.

Una connessione simile viene immaginata, da alcuni studiosi, anche in senso “trasversale”, ossia meno immediato. I due riquadri verso Nord descrivono, dalla grotta che accolse Romolo e Remo a Roma dominatrice sulle armi nemiche, l’intero arco della storia romana dalle umili origini al glorioso; al tempo stesso, Marte in armi e Roma in armi possono tradursi nell’etica guerriera della virtus romana.

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In modo simile è possibile analizzare trasversalmente i due opposti riquadri verso Sud, ossia quello di Enea e della Terra. Il primo è infatti il fondatore di una religione che, nella costanza del rito, storicamente riafferma il legame fra gli dei ed il popolo romano, offrendo alla Madre Terra i suoi frutti. Alla pietas di Enea fa riscontro la magnificenza della Terra, il piacere bucolico del ritorno alle semplici felicità del regno di Saturno, eredità di una memoria storica che lega alla vita frugale ed all’ininterrotta fatica dei campi.

Secondo alcune tesi degli studiosi, sarebbe possibile stabilire una connessione anche fra i rilievi collocati agli angoli opposti del recinto. Ai due putti allevati dalla Terra Madre corrisponderebbero Romolo e Remo allattati dalla Lupa, promettendo così ai giovani romani perpetuo nutrimento. Alle figure del Senato e del Popolo Romano, che dovevano fiancheggiare la personificazione di Roma, farebbero eco sull’angolo Nord-Ovest quelle di Enea, barbato e maturo come il Genius Senati, e di Iulo, giovane e imberbe come il Genius Populi: in tal senso, il rapporto fra senatori e popolo si tradurrebbe in una relazione fra padre e figlio.

LA SIMBOLOGIA DELL’ARA PACIS

Il giorno dell’inaugurazione dell’Ara Pacis, ossia il 30 gennaio del 9 a.C., i cittadini romani ebbero modo di ammirare le due file della processione, affollata di ritratti di contemporanei, quasi riflettesse una giornata specifica: si tratta probabilmente del 4 luglio del 13 a.C., quando una simile processione festeggiò il ritorno di Augusto a Roma dopo tre anni di assenza. Il Princeps, la sua famiglia e il suo seguito si trovavano così trasportati, in una sorta di simbolico viaggio nel tempo, sullo stesso piano di Enea che sacrificava ai Penati, di Marte che vegliava paternamente su Romolo e Remo, della Terra che prometteva fecondità perpetua e della personificazione di Roma in armi che vigilava sulle frontiere.

Anche nel gesto, nel capo velato, Augusto ripeteva la vicina figura di Enea: che non era solo Pater di tutti i Romani, ma diretto capostipite, attraverso il figlio Iulo, della Gens Iulia, la famiglia di Cesare e di Augusto. Nella propaganda augustea, il Princeps veniva spesso assimilato ora a Romolo, ora a Enea, facendo coincidere in tal modo l’origine della Città Eterna con quella della Gens Iulia.

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Fino a che punto la tendenza all’esaltazione del Princeps segnasse il programma dell’Ara Pacis, lo dimostra anche il gigantesco orologio solare, inaugurato nel Campo Marzio nel 9 a.C., lo stesso anno dell’Ara Pacis, quasi a formare con essa un unico complesso. Un obelisco (ora sito in piazza Montecitorio), portato appositamente dall’Egitto, segnava a mo’ di gnomone ore e stagioni allungando l’ombra su un vastissimo reticolo tracciato sul pavimento. Orientamento e struttura del quadrante furono costruiti sull’oroscopo di Augusto: rispetto a una rigorosa disposizione Nord-Sud, l’obelisco venne girato di 18° 37°, ma anche l’Ara Pacis venne costruita con identica deviazione, e le sue misure furono determinate dal percorso della linea equinoziale e di quella del solstizio d’inverno, in modo che il 23 settembre, giorno della nascita di Augusto, l’ombra dell’obelisco puntasse sull’Ara Pacis, mentre il Mausoleo a Ovest segnava il tramonto.

Secondo Svetonio, il matematico Facundio Novo che progettò l’orologio solare doveva sapere che “tanta fu la fiducia di Augusto nel fato, che volle diffondere il proprio oroscopo, e coniò una moneta argentea col proprio segno zodiacale, il Capricorno”: i tre monumenti erano dunque riuniti in unico complesso dalle linee invisibili ma evidentissime segnate dal percorso stesso degli astri.

LA PAX AUGUSTEA

La presenza di Marco Agrippa (morto nel 12 a.C) dimostra che l’intero programma iconografico fu eseguito rispettando le indicazioni date al momento della constitutio, ossia il 4 luglio del 13 a.C., come dimostrato anche dalle Res Gestae di Augusto. In tal senso, la scelta dei temi e la progettazione delle rispondenze dovevano rispecchiare la situazione dell’anno in oggetto.

È a questo punto necessario chiedersi che tipo di pax, in quell’anno, Augusto volesse celebrare.

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Già negli ultimi anni di Cesare, la pax era una via di mezzo fra una parola d’ordine ed uno slogan politico, atto a celebrare la fine delle guerre civili; purtroppo per Roma e soprattutto per il suo dittatore, la sua diffusione venne fatalmente arrestata dalle Idi di Marzo, ma nel discorso funebre di Marco Antonio (come riportato da Cassio Dione) Cesare venne celebrato come “portatore di pace”.

Nel 36 a.C. il giovane Ottaviano (non ancora Augusto) riprese la scia di Cesare, proclamando un programma politico basato su pace e prosperità, ma fu solo dopo la sconfitta di Antonio ad Azio nel 31 a.C. che la Pax comparve sulle sue monete. Negli anni successivi, l’ideologia della Pax Augustea si arricchì di un’altra caratterizzazione, ossia la sicurezza delle frontiere, conquistata esibendo un primato militare che non tema rivali: essa comporta saldezza dell’organizzazione interna e dei confini, ma anche rinuncia a un indefinito accrescimento del territorio romano, ossia alla cosiddetta cupido proferendi imperii.

Un’esplicita dichiarazione inerente tale linea di condotta venne certamente letta dal Senato romano nella lettera inviata da Augusto nel 20 a.C., sull’ondata di un grande successo diplomatico: come racconta Cassio Dione, i Parti avevano appena accettato, senza combattere, di restituire le insegne strappate a ben tre eserciti romani negli ultimi trent’anni. L’anno dopo, Augusto tornava a Roma dopo più di tre anni passati a sistemare le cose d’Oriente: il Senato gli decretò una solenne accoglienza, ma egli scelse di rifiutarla, entrando a Roma nottetempo e fondando la mattina dopo l’altare della Fortuna Redux, al fine di celebrare i successi del viaggio in Oriente.

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Nel 13 a.C. lo scenario si ripetè in modo pressochè identico: il Senato decretò onori straordinari, Augusto li rifiutò tutti ed entrò a Roma di notte. Il giorno dopo, il 4 luglio, Augusto fondò l’Ara Pacis in Campo Marzio. Ecco che i due viaggi, in Oriente e in Occidente, andavano quindi a sommarsi e sovrapporsi, raffigurando in modo perfetto l’opera di pacificazione compiuta ai due estremi dell’Impero.

L’Ara Pacis non celebrava la pace in generale, ma la Pax Augustea.

Con questo monumento veniva proclamata la pace raggiunta da Oriente ad Occidente, la maestà dell’Impero che incute reverenza ad ogni nemico, dai Daci ai Persiani, trattenendoli al di là delle frontiere. Le porte di Giano sarebbero rimaste chiuse per sempre.

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Augusto, che si era ormai impadronito dello stato romano rinnovandolo profondamente, ma in apparenza solo restaurando le magistrature repubblicane, lavorò come un grande attore per simulare di voler rifiutare i trionfi ed i titoli che gli venivano dedicati: nelle sue Res Gestae scrisse di aver accettato, nel 12 a.C., la carica di Pontefice Massimo solo perché “una moltitudine mai vista prima a Roma confluì da tutta Italia” per chiederglielo. Il rifiuto degli onori e l’attenuazione della gloria divennero per lui instrumenta regni: un suo tardo successore, l’Imperatore Giuliano l’Apostata, si permise persino di definire Augusto “un camaleonte.

A tale appellativo, seppur con parole ben più rispettose, si lega lo stesso Svetonio, quando parla di Augusto sul suo letto di morte dopo quarantadue anni di principato. Secondo il grande storico romano, le sue ultime parole furono: “Se vi pare che io sia passato come si conviene attraverso il teatro della vita, ecco il mio commiato: poiché la recita è andata bene fino in fondo, dateci il vostro applauso e congedateci con letizia”.

Fu l’ultimo atto della finzione augustea. L’applauso che Augusto chiedeva era, naturalmente, la propria divinizzazione. Il Senato, puntualmente, la proclamò solennemente appena un mese dopo.

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