I servizi pubblici nell’Antica Roma

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I SERVIZI PUBBLICI NELL’ANTICA ROMA

Nel ricollegarsi al grandioso piano ideato per Roma da Giulio Cesare, in cui si prevedeva un più organico sviluppo della città e il rinnovamento edilizio del nucleo urbano, il primo Imperatore di Roma Ottaviano Augusto avviò interventi meno radicali e rivoluzionari del suo predecessore, ma tuttavia tali da trasformare completamente l’immagine dell’Urbe.

Determinante a tale scopo fu la riforma amministrativa, in base alla quale il territorio urbano fu suddiviso in quattordici Regiones, con il superamento della separazione tra centro storico e nuovi quartieri sorti oltre le mura repubblicane: si trattava di vere e proprie circoscrizioni amministrative, create come schema organizzativo per il governo della città e per i servizi pubblici fondamentali.

Proprio nell’ambito dei servizi pubblici, di primaria importanza per una popolazione in continuo aumento e che superava ormai il milione di abitanti, Augusto aggiunse nuovi organismi (come ad esempio il corpo dei vigiles) ai servizi già esistenti nella repubblica, assicurandone un migliore e più efficace funzionamento: esemplari, a questo proposito, sono i casi del rifornimento granario e di quello idrico.

Del tutto nuova fu invece la nomina diretta, da parte dell’Imperatore, dei Prefetti e dei Curatores, che ereditarono i compiti già svolti dalle magistrature cittadine dei Censori e degli Edili.

Proviamo ad esaminare ora l’insieme dei servizi pubblici dell’Antica Roma, soffermandoci sui più rilevanti.

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LA DISTRIBUZIONE DEL GRANO

Nell’antica Roma la certezza del pane quotidiano venne assicurata dalla Cura Annonae, una struttura organizzativa molto complessa e preposta all’acquisizione, al trasporto e alla distribuzione delle vettovaglie.

Nei primi secoli della repubblica, quando per il sostentamento degli abitanti della Città Eterna era ancora sufficiente il grano prodotto dalle regioni vicine, gli Edili Plebei e Curuli responsabili del sistema annonario si preoccupavano di rifornire regolarmente l’Urbe di una scorta sufficiente di frumento, allora alla base di tutta l’alimentazione. Lo Stato, pertanto, acquistava e conservava nei magazzini pubblici una quantità di grano destinata alla distribuzione gratuita in caso di carestia, ma che, abitualmente, veniva immessa sul mercato per mantenere a un livello medio il prezzo delle derrate.

Sempre agli Edili spettava la vigilanza sul mercato dei viveri in genere, onde ostacolare e reprimere l’aumento artificiale dei prezzi di vendita. Le competenze di questi magistrati cominciarono però ad ampliarsi già al tempo della Seconda Guerra Punica, quando si accentuò il fenomeno dell’inurbamento e la conseguente crisi del comparto agricolo, che spinse un elevato numero di piccoli proprietari e di disoccupati a trasferirsi a Roma, facendo così aumentare il fabbisogno dei cereali. Le importazioni di frumento dalle province oltremarine diventarono così sempre più regolari e abbondanti, ed altrettanto frequenti divennero le distribuzioni (frumentationes) a prezzo politico o addirittura gratuite da parte dello Stato.

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Queste frumentationes venivano spesso interpretate dai cittadini dell’Urbe come un privilegio e, in un certo senso, come una redistribuzione dei proventi delle Province a essi dovuta: proprio per questo motivo, fu necessario regolarne dettagliatamente il funzionamento, attraverso l’istituzione dell’Annona.

La trasformazione della Cura Annonae in servizio pubblico avvenne al tempo di Caio Gracco che, nel 123 a.C., presentò la prima legge in materia, la Lex Sempronia Frumentaria: con quest’ultima veniva infatti approvato il principio secondo cui lo Stato non solo doveva rifornire di continuo Roma di derrate, ma anche consentirne periodicamente l’acquisto a tutti i cittadini a un prezzo molto inferiore a quello di mercato.

Nel 58 a.C. si andò ancora oltre con la Lex Clodia, che per prima sancì la distribuzione completamente gratuita di frumento a tutti i cittadini romani, con esclusione degli appartenenti agli ordini senatorio ed equestre (ritenuti sufficientemente abbienti da poterlo acquistare). Ben presto il numero dei beneficianti raggiunse le 300.000 unità, dettaglio che costrinse Cesare a regolare minuziosamente la distribuzione affidando la direzione del servizio a due nuovi Edili detti ceriales (da Cerere), istituiti nel 44 a.C.

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Alcuni anni dopo, Augusto riorganizzò la Cura Annonae con la nomina al vertice del Praefectus Annonae, il cui potere e la cui sfera d’azione sono sintetizzati in maniera efficace nella frase rivoltagli da Seneca: “Tu quidem orbis terrarum rationes administras”, ossia “tu gestisci gli interessi del mondo intero”. Il Prefetto dell’Annona non solo infatti riforniva i mercati di tutti i viveri necessari, ma esercitava il controllo su tutte le produzioni alimentari dell’Impero, tramite un ufficio centrale sito a Roma ed altre sezioni distaccate, come quelle di Ostia e Pozzuoli.

La quantità di grano distribuita individualmente fu fissata a cinque modii mensili (con un modio equivalente più o meno a 7 Kilogrammi). Per rientrare nella schiera dei beneficiari, dai quali di norma erano esclusi donne e fanciulli, occorrevano due requisiti: la cittadinanza romana e la residenza nella città di Roma. Soltanto a tali condizioni il nome veniva inciso negli elenchi ufficiali delle distribuzioni, che dall’epoca di Claudio si tennero esclusivamente nella Porticus Minucia Frumentaria, adiacente all’attuale Area sacra di Largo Argentina. La distribuzione fu resa ancor più rapida dal rilascio di una tessera frumentaria, solitamente in legno, contenente il nome e il prenome del titolare, il numero dell’arcata del portico nella quale doversi recare, nonché il giorno stabilito per la distribuzione.  

Nel III secolo d.C., con l’Imperatore Settimio Severo, al grano si aggiunsero anche distribuzioni di olio, alle quali si sommarono con l’Imperatore Aureliano anche distribuzioni gratuite di carne di maiale (nel Forum Suarium) e vino (nel Tempio del Sole eretto dallo stesso Aureliano).

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IL TRASPORTO DEL GRANO

In base ai dati numerici tramandati dalle fonti letterarie, la quantità annua di grano necessaria e fornita a Roma dalle cosiddette “province frumentarie” (Sicilia, Sardegna, Spagna, Africa e soprattutto Egitto) può essere fissata in circa 200.000 tonnellate, con l’Africa a fare la parte del leone. Parte del grano affluiva a Roma come provento di tassazioni in natura o come quota pagata dagli affittuari dell’agro pubblico e delle proprietà imperiali, mal tempo stesso altre notevoli quantità venivano acquistate dal fisco imperiale presso i mercanti frumentari.

La maggior parte del trasporto avveniva ovviamente via mare: ogni nave di stazza media poteva trasportare circa 350 tonnellate di grano, e veniva spesso accompagnata da numerose imbarcazioni di portata minore. Si tratta quindi di circa 800 spedizioni, che fanno facilmente comprendere l’enormità di lavoro necessario alla raccolta ed allo smistamento del grano, nonché all’immagazzinamento ed allo smercio nella Capitale. In tal senso, al fine di velocizzare le operazioni, gli Imperatori accordarono vari privilegi agli armatori (navicularii) e ad altri imprenditori del settore (mercatores, negotiatores frumentarii) in cambio dell’opera da essi prestata nel servizio annonario.

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L’ORDINE PUBBLICO

Nell’ambito della sua riorganizzazione militare, Augusto creò un sistema di forze di polizia in grado di garantire sia il potere del Princeps sia la sicurezza e l’ordine pubblico nel centro dell’impero. Ne facevano parte le Cohortes Praetoriae, le Cohortes Urbanae e le Cohortes Vigilum, tutte di stanza a Roma e controllate direttamente dall’imperatore attraverso un Praefectus che per le Cohortes Urbanae era di rango senatorio, mentre negli altri due casi era un funzionario giunto ai vertici della carriera equestre.

Durante la repubblica, i compiti di polizia urbana furono una delle numerose attribuzioni degli Edili, incaricati di assicurare la tranquillità pubblica a Roma soprattutto in occasione di feste e di altri avvenimenti. In tale mansione furono affiancati dai Tresviri Capitales, diretti responsabili delle inchieste sui reati e delle denunce inerenti questi ultimi, nonché degli arresti preventivi.

Successivamente, Augusto incaricò dell’attività di polizia urbana il Praefectus Urbi: quest’ultimo disponeva delle tre Cohortes Urbanae, ciascuna delle quali era composta di 1000 uomini ed era comandata da un Tribuno. Quest’uomo possedeva notevoli poteri giudiziari, che spesso venivano esercitati in via sommaria contro vagabondi, mendicanti, schiavi, criminali fuggiti dalle prigioni ed in generale contro i perturbatori dell’ordine pubblico, oltre a colpire a volte associazioni potenzialmente in grado di creare turbative, come le comunità cristiane. Era sempre al Praefectus Urbi che i padroni dovevano ricorrere nel caso in cui avessero voluto punire i propri schiavi con pene più severe, mentre questi ultimi potevano appellarsi a lui per eventuali maltrattamenti subiti. Infine, spettava sempre a tale figura sorvegliare sulle distribuzioni di frumento e di altri alimenti alla plebe urbana. In base a rinvenimenti epigrafici, la sede della prefettura urbana è stata localizzata nella zona dell’odierna Chiesa di San Pietro in Vincoli.

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La sicurezza urbana, specialmente quella notturna, spettava ai Vigiles. “Vegliare sul riposo della popolazione”, come prescriveva il Digestum (la raccolta di tutti i più importanti scritti dei giuristi romani, pubblicata dall’imperatore Giustiniano nel 533 d.C.), era un lavoro duro e non esente da rischi per i 7000 uomini del corpo dei Vigiles, tenuti a vegliare su una città come Roma, priva di illuminazione pubblica e ove il calar delle tenebre favoriva ogni tipo di scelleratezze. Oltre al pericolo di essere investiti da urina, escrementi e oggetti lanciati dalle finestre, era facile imbattersi in tipi poco raccomandabili: vagabondi, ubriachi, rapinatori, scassinatori (effractores) e assassini (sicari).

Anche molti membri dell’aristocrazia si davano spesso a bravate e scelleratezze, tanto che il solito Giovenale scrisse che “non correva pericolo solo chi usciva di casa sotto buona scorta”.

LE GUARDIE DELL’IMPERATORE

L’istituzione dei Pretoriani come guardia ufficiale permanente dell’imperatore risale ad Augusto, che nel 27 a.C. creò a tale riguardo 9 coorti, di cui tre di stanza a Roma e le altre dispiegate per l’Italia. Fu il suo successore Tiberio, nel 23 d.C., a riunirle in un unico accampamento fortificato, i Castra Praetoria, appositamente costruito nell’estrema parte nord-orientale della città, tra la via Nomentana e la via Tiburtina.

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Ai Pretoriani vennero accordati svariati privilegi, fra cui una paga più alta e maggiore facilità di carriera, a cui si aggiunse il fatto che essi fossero impegnati in un servizio molto prestigioso grazie allo stretto contatto con la classe dirigente e con lo stesso Imperatore, che essi dovevano accompagnare nelle campagne militari anche fuori d’Italia. Ciò spiega la grande influenza esercitata nelle vicende politiche e la larga parte avuta nella storia di Roma da questo corpo, che decretò la fortuna o addirittura la morte di alcuni Imperatori.

Per garantire l’incolumità dell’imperatore e della sua famiglia vennero, nel corso dei secoli, organizzate altre formazioni militari: sono quasi certamente riconducibili a Traiano, ad esempio, gli Equites Singulares, cavalieri reclutati nelle Province oppure tra gli elementi della cavalleria ausiliaria, che vennero acquartierati in due caserme, ossia i Castra Priora, individuati nell’odierna Via Tasso, ed i Castra Nova, distrutti da Costantino per l’erezione della basilica intitolata al Salvatore nel sito poi occupato dalla basilica di San Giovanni in Laterano.

L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

I risultati della vigilanza ininterrotta sulla città da parte della polizia diurna e notturna apparvero poco soddisfacenti a Giovenale che, nel definire “Roma ancora preda dei malfattori”, affermava sconsolato: “In tutte le fucine si fabbricano catene su catene. La maggior parte del nostro ferro è adoperato in ceppi da galera. Finiranno per scarseggiare gli aratri, per mancarci badili e zappe”.

Cone luoghi di detenzione, oltre al celebre Carcer Tullianum (sottostante l’odierna chiesa di San Giuseppe dei Falegnami), ove furono giustiziati i prigionieri di Stato tra i quali Giugurta e Vercingetorige, venivano usate le caserme dei vari Castra e le stationes dei Vigiles. Qui venivano immediatamente condotte le persone arrestate in attesa di comparire davanti all’autorità giudiziaria.

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Nell’Antica Roma antica la detenzione era solitamente breve, e non era ritenuta una misura punitiva, ma soltanto una precauzione affinchè il carcerato rimanesse a disposizione del magistrato. Al termine del procedimento giudiziario potevano essere inflitti vari tipi di condanna, che andavano dal classico risarcimento in denaro alla persona offesa fino alla pena di morte, prevista per i reati pubblici ed applicata con sistemi diversi a seconda delle epoche (vedasi, in tal senso, l’apposito articolo del nostro blog).

Fin dall’epoca repubblicana, spesso come alternativa ad una condanna a morte, l’imputato poteva scegliere l’esilio volontario. Successivamente, le condanne divennero più variegate, passando dai lavori forzati nelle miniere (metalla) a quelli nelle opere pubbliche. Per i condannati per reati di ordine pubblico inoltre era prevista la confisca dei beni e talvolta, nei casi più gravi, persino la perdita della cittadinanza romana.

LA PREVENZIONE DEGLI INCENDI

Gli incendi rappresentavano probabilmente il pericolo più costante dell’Urbe: non passava giorno in cui i cittadini non avessero il terrore di essere sorpresi dalle fiamme, soprattutto nel sonno.

D’altra parte, all’interno di ogni dimora il fuoco era necessario per la cottura dei cibi, per l’illuminazione e per il riscaldamento, e pertanto bastava la minima disattenzione per causare un immenso rogo alimentato dal legno impiegato nella costruzione della casa e dai pochi mobili che la arredavano. La rapidità con cui gli incendi si estendevano da un rione all’altro era imputabile soprattutto all’agglomerazione di interi quartieri, caratterizzati da vie strette e tortuose. Come facilmente intuibile, le conseguenze più catastrofiche furono quelle del celebre incendio neroniano che, scoppiato nel 64 d.C., durò ben nove giorni, distruggendo dieci delle quattordici regioni di Roma.

La prima versione del servizio antincendio fu istituita sin dalla repubblica e venne affidata ai già nominati Tresviri Capitales, detti anche Nocturni per le ronde effettuate nella città avvolta dalle tenebre. Il lavoro manuale veniva svolto da un corpo di schiavi, addestrati proprio sotto la direzione dei Tresviri Nocturni, che venivano affiancati da funzionari con speciali compiti di sorveglianza: i Quinqueviri Cistiberes.

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I VIGILES

Fu Augusto a rendersi conto di come i provvedimenti fossero spesso inadeguati a garantire la sicurezza della città, e quindi decise di riformare completamente il corpo istituendo nel 6 d.C. il nuovo corpo dei Vigiles, che, oltre a occuparsi degli incendi, avrebbe dovuto provvedere anche alla polizia notturna. Organizzato militarmente, il corpo disponeva all’incirca di 7000 uomini ed era composto di sette coorti, ognuna delle quali si suddivideva a sua volta in sette centurie. Considerata come una frazione permanente dell’esercito, questa milizia se ne distingueva per il reclutamento dei vigili tra i liberti, che, in base alla Lex Visellia (del 24 d.C.), dopo sei anni di servizio (poi ridotti a tre) potevano ottenere la cittadinanza romana.

Il comando del corpo era affidato al Praefectus Vigilum, scelto nell’ordine equestre e che aveva anche poteri giurisdizionali per i reati connessi con il servizio di pubblica sicurezza e prevenzione degli incendi svolto dalla sua milizia: egli esercitava quindi il suo giudizio in via penale contro gli incendiari, i rapinatori, i ladri e i danneggiatori di magazzini e luoghi pubblici.

Fonti letterarie ed epigrafiche hanno tramandato molte notizie sulle prestazioni dei vigili, alcune delle quali erano più attinenti ai compiti di pubblica sicurezza: carcerarii e horrearii erano infatti destinati rispettivamente alla sorveglianza delle carceri e dei magazzini dello Stato e dei privati, mentre i siphonarii erano responsabili delle manovre connesse alle pompe e gli aquarii erano addetti alle prese d’acqua.

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Sui muri dell’Excubitorium di Trastevere, una sorta di corpo di guardia scoperto nel 1866 (ne parliamo nel nostro tour dedicato al Rione Trastevere), sono stati trovati però graffiti richiamanti altri due ruoli: il sebaciarius e l’emitularius. I sebaciarii sembrano alludere al servizio di illuminazione pubblica organizzato nel III secolo d.C. dall’Imperatore Caracalla in relazione all’apertura delle terme durante la notte; l’emitularius era invece probabilmente un vigile incaricato di stendere a terra cuscini e materassi per il salvataggio di chi si lanciasse dall’alto, o secondo altri studiosi semplicemente un assistente del sebaciarius.

L’equipaggiamento dei Vigiles comprendeva sia i dispositivi meccanici, quali le pompe (siphones) in grado di sollevare e spingere con forza, che semplici strumenti come i sacchi di giunchi cosparsi di pece, le pertiche, le scale, le corde ed i centones, una sorta di grande coperta opportunamente bagnata ed utilizzata per soffocare le fiamme. Nel tentativo di isolare gli incendi si adoperavano anche strumenti distruttivi, come accette o picconi (dolabra), particolarmente adatti ad abbattere porte e muri.

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IL SERVIZIO IDRICO

Il grande architetto Vitruvio, interrogato sull’importanza del servizio idrico per la città di Roma, espresse così il proprio pensiero: “è indispensabile per la vita, per i piaceri della vita e l’uso quotidiano”. Una simile affermazione è ancor oggi confermata dai monumentali resti degli acquedotti, cosi come numerose sono le notizie tramandate da testimonianze epigrafiche e letterarie: la fonte più rilevante è ovviamente il trattato scritto alla fine del I secolo d.C. da Sextus Iulius Frontinus, il De Aquaeductu Urbis Romae, in cui l’autore raccolse tutte le informazioni al fine di sviluppare uno strumento di lavoro utilizzabile anche dai suoi successori.

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In età repubblicana, erano i Censori ad occuparsi della costruzione e della manutenzione degli acquedotti, mediante l’appalto dei lavori e il collaudo. Alla sorveglianza dell’acqua pubblica provvedevano peraltro gli Edili, affidando in ogni strada o piazza la custodia della fontana a due cittadini residenti nei pressi.

Nel 33 a.C. Marco Agrippa, che all’epoca ricopriva la carica di Edile, riparò i vecchi acquedotti e ne costruì due nuovi (vedasi in tal senso l’articolo del nostro blog dedicato agli acquedotti della Roma Antica), predisponendo a tal fine una squadra di quasi trecento schiavi. Fu proprio grazie al lavoro di Agrippa che venne istituita la figura del Curator Aquarum, incaricato direttamente dall’Imperatore.

Un’ulteriore e significativa modifica fu introdotta, alla metà del I secolo d.C., dall’Imperatore Claudio il quale, per controllare maggiormente il servizio, nominò un tecnico di sua fiducia, il Procurator Aquarum, mettendogli a disposizione altri 450 schiavi. Verso la fine del II secolo d.C., poi, il responsabile del servizio assunse il titolo di Curator Aquarum et Minuciae, denominazione dalla quale si deduce la fusione con il servizio dell’annona.

Le norme giuridiche della Cura Aquarum si fondavano sul principio dell’acqua di proprietà dello Stato, che doveva curarne la derivazione dalle sorgenti, il trasporto a Roma e la distribuzione fra gli aventi diritto. Basandosi soprattutto sulle delibere del Senato e sulle norme stabilite dalla Lex Quinctia (9 a.C.), Frontino sottolineava il principio della pubblica utilità dell’acqua rispetto alle concessioni dei privati: proprio per questi ultimi, vennero fissate regole molto severe che definivano le modalità e la durata dell’adduzione, la quale era peraltro vincolata alla proprietà del terreno cui veniva destinata.

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Un vero e proprio provvedimento di tutela era anche quello che, per mantenere un buono stato di conservazione ed un’ottima facilità di manutenzione, imponeva su ciascun lato dell’acquedotto una fascia di rispetto, libera cioè da edifici e vegetazione, larga quindici piedi e debitamente segnalata da cippi. Per i trasgressori era prevista una multa assai salata, che veniva addirittura decuplicata nel caso in cui qualcuno avesse manomesso o danneggiato qualsiasi parte degli impianti del rifornimento idrico.

Tali misure preventive e repressive scoraggiarono abusi o frodi commessi anche dagli addetti ai lavori (aquarii), che escogitarono diversi sistemi per frodare l’acqua allo Stato, il più diffuso dei quali era l’installazione di un tubo più largo rispetto a quello previsto dalla concessione. Erano infatti proprio i tubi a distribuire capillarmente l’acqua nell’Urbe: Vitruvio raccomandava l’uso di quelli in terracotta, non solo per il loro minore costo e per la facilità di riparazione ma, soprattutto, perché non nocivi alla salute degli utenti, come lo erano invece i tubi di piombo che, a contatto con l’acqua, producevano la biacca, responsabile del pallore tipico di chi lavorava tale metallo.

I tubi avevano una sezione diversa e l’unità di misura era la fistula quinaria (circa 23 mm), mentre il diametro poteva arrivare a un massimo di 22 cm secondo i valori riportati da Frontino e che implicavano una diversa portata. Sul tubo venivano spesso incisi i nomi dei concessionari dell’acqua insieme al nome del funzionario responsabile della concessione e a quello del titolare della ditta fabbricante e fornitrice della tubatura.

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LA NETTEZZA URBANA

I compiti di riparazione, pavimentazione, conservazione e pulizia delle strade cittadine erano chiaramente definiti dalla Lex Iulia Municipalis del 45 a.C. e dalla stessa affidati agli Edili: questi ultimi dovevano vigilare affinché la manutenzione delle strade fosse eseguita a carico dei proprietari degli edifici prospicienti sulle stesse, e dovevano anche riparare eventuali danni alla pavimentazione nonché proibire l’occupazione indebita di piazze e strade, impedendo l’invadente esposizione delle merci da parte dei negozianti e l’accumulo di immondizie, la cui rimozione era affidata, sempre sotto la direzione degli Edili, ai Quattuorviri Viis in Urbe Purgandis.

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I mezzi del servizio di nettezza urbana erano molto semplici: da una parte vi erano gli scoli dell’acqua piovana in cui convogliavano anche i rifiuti delle fogne; dall’altra vi era l’impiego di carri soprannominati stercoris exportandi causa. I rifiuti delle case private venivano deposti lungo le strade, oppure gettati dalle finestre direttamente sulla strada durante la notte con grave pericolo per i passanti, che spesso venivano investiti anche dal contenuto dei vasi notturni. Giovenale, a tale riguardo, metteva in guardia gli abitanti della Città Eterna: “Sei davvero un negligente e un imprudente, se, quando ti invitano a cena fuori, ci vai senza aver fatto testamento”.

LE FOGNE

Imponenti opere di pubblica utilità, le cloache erano canali sotterranei destinati a scaricare nel fiume le acque piovane e i rifiuti delle strade. Il loro funzionamento, dal quale dipendevano l’igiene e la salubrità di Roma, è dettagliatamente illustrato da Plinio che le definisce “l’opera più notevole che si possa menzionare, visto che costrinse a far gallerie nei colli e Roma divenne una città nella quale si poteva navigare sotto. La attraversavano incanalati sette corsi d’acqua che, scorrendo impetuosi come dei torrenti, erano forzati a trascinare e portar via tutto”.

Oltre alla Cloaca Maxima (la regina delle fogne di Roma, la cui costruzione viene attribuita da Livio a Tarquinio Prisco al fine di prosciugare la zona paludosa del Foro Romano) e alla rete a essa collegata, altri condotti scaricavano nel Tevere attraverso una canalizzazione destinata agli edifici pubblici e alle latrine, alle case signorili e soprattutto alle strade collegate con le sottostanti cloache mediante aperture praticate al centro delle stesse o sotto il margine dei marciapiedi. Sono altresì noti vari tipi dì chiusini, dalle forme più semplici alle più elaborate, tra cui spicca la cosiddetta Bocca della Verità.

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Del servizio delle fognature si occupavano i Censori, che tendenzialmente appaltavano i lavori necessari a un Redemptor Cloacarum. Tra gli Edili, preposti invece alla manutenzione delle fogne, si distinse ancora una volta Marco Agrippa, per averne migliorato il funzionamento con l’immissione dei sopravanzi degli acquedotti.

GLI EDIFICI PUBBLICI

Dal 10 a.C. la soprintendenza degli edifici pubblici fu esercitata da due senatori nominati dall’Imperatore, al quale spettava comunque in modo esclusivo l’iniziativa di tutte le costruzioni pubbliche (templi, acquedotti, portici, archi, terme, teatro, circhi, ecc.) che si configuravano ovviamente come uno straordinario strumento di propaganda imperiale.

Il compito di questi due curatori era duplice e consisteva da un lato nella vigilanza sui templi e sugli altri edifici pubblici di Roma, dall’altro nella direzione delle opere pubbliche, nonché nella concessione del suolo pubblico ai privati dietro pagamento di un canone.

C’erano poi altri funzionari, detti Procuratores, che venivano preposti a specifici ed importanti edifici: uno dei casi più celebri è quello di Adrasto, liberto di Settimio Severo, il quale chiese all’Imperatore il permesso di costruire a proprie spese, su un terreno pubblico, una casa nei pressi della colonna di Marco Aurelio, per poter svolgere in modo più efficace la guardiania e i servizi di manutenzione della stessa colonna.

LA GESTIONE DEL TEVERE

Roma fu sempre devastata dalle frequenti esondazioni del fiume Tevere. In seguito ad una delle più violente alluvioni dell’antichità, avvenuta il 15 d.C., la cura degli argini e dell’alveo del Tevere (Cura Riparum et Alvei Tiberis) venne affidata da Tiberio a un comitato di cinque senatori estratti a sorte, sostituiti all’epoca di Claudio da un Procurator Augusti ad Ripas Tiberis. Per il percorso urbano del fiume, la principale competenza di questo servizio era la delimitazione delle rive attraverso cippi di travertino con apposite iscrizioni, indicanti la zona di rispetto, ma comprendeva anche tutti gli interventi necessari per il consolidamento degli argini e la demolizione degli edifici eccessivamente vicini alla riva.

Altro problema che colpiva l’Urbe, oltre agli straripamenti del fiume, era quello delle inondazioni, causate proprio dal collegamento dei collettori con il Tevere: durante le piene, infatti, l’acqua rigurgitava nelle fogne con effetti devastanti, allagando strade e piazze. A questo annoso problema si rimediò in maniera definitiva soltanto con la costruzione dei muraglioni del Lungotevere, avvenuta dopo la Presa di Roma del 1870.

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IL SERVIZIO POSTALE

L’istituzione di un servizio di posta nell’Impero Romano fu determinata dalla necessità politica e militare di mantenere rapporti continui tra il governo centrale e i Governatori militari e civili delle Province. Inizialmente, quindi il Cursus Publicus era destinato esclusivamente al trasporto di messaggi e di persone in viaggio per conto dello Stato.

Fu Augusto a perfezionare il sistema con l’impiego di un elevato numero di corrieri a cavallo (iuvenes), in grado di riferire con celerità le notizie di ciascuna Provincia. Con Adriano venne in aggiunta nominato il Praefectus Vehiculorum, che doveva assicurarne la regolarità del trasporto attraverso il controllo delle strade e delle stazioni di sosta.

Per i dispacci più urgenti, venivano attivate specifiche categorie: gli speculatores, ossia rapidissimi corrieri a cavallo, ed i veredarii, celebri per essere stati utilizzati allo scopo di far pervenire in soli quattro giorni, da Aquileia a Roma, nel 238 d.C., la notizia dell’assassinio dell’Imperatore Massimino il Trace.

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In ogni singola stazione di posta (mansio) il servizio di pattugliamento, di controllo del traffico e la verifica del corretto impiego degli animali da trasporto era di competenza degli stationarii, che si servivano di stallieri e spesso di un veterinario sito sul posto. Toccava invece agli hippocomi preoccuparsi di riportare indietro da una stazione all’altra i veicoli e i carri.

I privati poterono beneficiare del servizio di posta solo occasionalmente, anche se, col tempo, diventarono sempre più numerose le eccezioni e i permessi rilasciati a personaggi di particolare importanza. Di norma questi ultimi provvedevano autonomamente alla corrispondenza, servendosi di appositi schiavi (tabellarii). Per le piccole spedizioni si avvalevano dei mercanti, dei carrettieri e dei marinai in transito a Roma. Anche questi schiavi privati dovevano però rivelarsi spesso assai celeri, considerato che uno stupefatto Ovidio raccontava che una sua lettera inviata da Brindisi fu recapitata a Roma dopo solo nove giorni, con una percorrenza media giornaliera di quaranta miglia.

I VEICOLI DEL SERVIZIO POSTALE

La tipologia dei carri adoperata per il servizio postale fu sempre particolarmente variegata ed articolata: molto dipendeva dalla modalità di trasporto, a seconda che essa fosse rapida (cursus celer) o lenta (cursus tardus). Di solito ricorrevano al servizio veloce i dignitari dello Stato e i funzionari della posta addetti alla sorveglianza e in questo caso venivano impiegati cavalli e muli, mentre per il cursus tardus si utilizzavano grandi vetture trainate da buoi per il trasporto di soldati, di derrate alimentari e di beni dello Stato.

Il veicolo più diffuso nel corso veloce era la rheda, un carro a quattro ruote trainato da due o quattro cavalli che, coperto da teloni, poteva trasportare due o tre persone con il bagaglio sistemato in una sorta di cassone. Usato in origine dalle matrone era invece il carpentum, carro a quattro ruote spesso utilizzato anche per il trasporto degli oggetti d’arte dalle Province a Roma. All’Imperatore e ai grandi dignitari veniva invece riservata la carruca, caratterizzata da grande comodità ed elaborati ornamenti, utilizzata solitamente per i viaggi più lunghi.

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