L’imperatore Caligola

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L’IMPERATORE CALIGOLA

A voler cercare di essere obiettivi (e non è facile esserlo trattando di un personaggio così complesso e poliedrico come l’Imperatore romano), nella storia dell’Antica Roma ci sono due Caligola.

Da un lato spicca il giovane uomo che l’aneddotica più colorita ricorda come vero e proprio adoratore del proprio cavallo, ispiratore di eccentricità crudeli e di giochi insensati. Dall’altro emerge il principe liberale, amatissimo dalla gente, che sostituisce con la propria giovinezza il rispetto cupo preteso da un Tiberio sempre più isolato su se stesso, soprattutto negli anni del tramonto della propria esistenza.

Proviamo, in questo breve articolo, a raccontare l’uomo e il demone, mettendo per un attimo da parte gli aneddoti più celebri e le costruzioni più note legate all’Imperatore, come ad esempio le due grandi navi posizionate sul Lago di Nemi (di cui restano ancora svariati bronzi esposti al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo) o il trasporto dell’obelisco posto oggi al centro di Piazza San Pietro. Dedichiamoci invece a narrare l’inizio e la fine della vita di Caligola, aiutati soprattutto dalle cronache di Svetonio, per cercare di capire se egli debba davvero essere considerato uno dei peggiori Imperatori della storia di Roma Antica.

LA MORTE DI TIBERIO

Caio Cesare Germanico (questo il vero nome di Caligola) diventa imperatore nel 37 d.C., a venticinque anni non ancora compiuti.

Il vecchio Tiberio lascia per l’ultima volta l’esilio dorato di Capri: amareggiato e decisamente stanco dei giochi politici e delle maldicenze che lo tormentano, vi si è rifugiato nel 21 d.C., facendo costruire undici ville per gli amici ed una dodicesima, la più imponente, per sé. A Capri il clima è dolce, e gli amici dell’Imperatore amano riunirsi per discorrere di filosofia e di scienza, almeno a detta dei cronisti più favorevoli all’Imperatore. La nave di Tiberio dondola sempre nel porto dell’isola, attraccando raramente all’altra sponda, sulla penisola italica, lasciando l’Imperatore sempre più isolato nel suo piccolo paradiso, creato a sua immagine e somiglianza.

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A marzo, compiuti da poco 78 anni, Tiberio decide di spingersi verso Roma, probabilmente per adempiere ad alcune funzioni ufficiali, ma non fa in tempo ad arrivare alla capitale. Un dolore lo tormenta: a sette miglia dall’arrivo, ordina di tornare indietro. Tiberio non è più in grado di montare a cavallo: lo trasportano a Miseno, nella villa che era stata di Lucullo, celebre per i suoi fastosi banchetti, e proprio in questa lussuosa domus Tiberio esala l’ultimo respiro, il 16 marzo del 37 d.C.

Si tratta probabilmente di morte naturale, ma i testimoni del tempo insinuano sospetti, come evidente dalle parole dello storico Tacito: “Sedici giorni prima delle calende di aprile, poiché gli è venuto meno il respiro, si crede che Tiberio sia giunto alla fine della sua vita terrena. Già Caio Cesare, accompagnato da una folta schiera di gente che si rallegra con lui, va fuori a raccogliere le congratulazioni, quando si annunzia che Tiberio ha ripreso a parlare: aperti gli occhi, chiama affinché gli si porti del cibo. Nutrendosi, spera di superare il malessere. Gran sgomento. Ciascuno si atteggia a mestizia o finge di non sapere nulla. Cato Cesare, impietrito nel silenzio, sembra aspettare l’estrema condanna, seccato dallo svanire della speranza che credeva realizzata. Macrone, il prefetto del pretorio, risolve il dilemma. Ordina di soffocare il vecchio sotto un viluppo di vesti, e comanda agli altri di allontanarsi dalla soglia della stanza”.

LA MORTE DI GERMANICO

Caio Cesare finalmente diventa Imperatore. Ha 25 anni, è alto e pallido, un po’ grassoccio e quasi calvo, con gli occhi infossati. È talmente fiero di appartenere alla gens Giulio-Claudia da non voler mai che gli si ricordi il nonno Agrippa, di origini più modeste.

È figlio di quel Germanico, adottato da Tiberio per ordine di Augusto, idolatrato dai militari che vegliano ai confini dell’Impero. Tutti i cronisti trovano parole di lode per questo generale, che ha domato la rivolta delle legioni nella Germania Inferiore, minacciando di uccidersi quando i soldati hanno insistito sulla pretesa di proclamarlo Imperatore. Temendo disordini allontana la propria famiglia dal campo, e della famiglia (oltre alla moglie Agrippina e ai loro otto figli) fa parte proprio Caio Cesare. Secondo Svetonio la presenza di Caio Cesare, nato ad Anzio nel 12 d.C., sarebbe indirettamente determinante nel soffocamento delle inquietudini dei soldati: sono infatti tutti molto affezionati al ragazzino cresciuto in mezzo a loro, che veste i loro stessi abiti e che porta ai piedi minuscoli calzari militari (in latino caliga, da cui appunto il soprannome Caligola che gli rimarrà attaccato addosso).

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Quando Tiberio sa dell’episodio finge commozione e pronuncia in senato l’elogio di Germanico, ma Tacito malignamente osserva “con parole troppo appariscenti perché egli sentisse profondamente ciò che diceva”. Germanico, in fondo, non gli piace, così come non gli piace la sua popolarità: tutti ne fanno un modello da imitare, una sorta di ispirazione generale, il generale intellettuale che lascia i campi di battaglia per studiare le rovine di Alessandria d’Egitto, il generale che sa usare il pugno di ferro quando la salvezza della patria è in pericolo.

Germanico muore a 34 anni, forse avvelenato dall’uomo che lo stesso Tiberio gli ha messo al fianco, ossia il governatore della Siria Calpurnio Pisone. Quest’ultimo riesce in realtà a dimostrare la propria innocenza, ma il processo termina anzitempo perché anche lui, misteriosamente, muore. Agrippina, moglie di Germanico, brucia a fuoco lento il rancore, e quando il figlio Nerone si fa adulto, comincia a tramare contro Tiberio, perduto negli ozi di Capri. Nel febbraio del 29 d.C. l’Imperatore, informato dal Senato, denuncia Agrippina e i suoi figli: la vedova di Germanico diventa “nemica pubblica” e confinata a Pandataria (oggi Ventotene) sino alla sua morte. Nerone finisce a Ponza e qui muore, improvvisamente, nel 31 d.C.

IL GIOVANE CALIGOLA

Si salvano solo i due piccoli della covata, Druso e Caligola, protetti dall’Imperatore stesso. Caligola, nello specifico, è il suo prediletto, tanto che a 19 anni Tiberio lo chiama a Capri, allo scopo di plasmarne un carattere complesso, derivato da un’adolescenza tumultuosa, funestata da storie atroci.

In realtà, Tiberio è ben consapevole di essere in parte responsabile delle disgrazie giovanili del ragazzo, essendo stato lui a disgregargli la famiglia. Il rapporto fra l’Imperatore ed il rampollo è dicotomico: Tiberio si diverte ad umiliarlo in pubblico, per poi elogiarlo subito dopo, mostrandogli al contempo rispetto e disprezzo.  È un collaudo lungo a cui partecipano probabilmente anche delle spie imperiali, incaricate da Tiberio di saggiare gli umori del ragazzo ed i suoi sentimenti segreti: bisogna scoprire se il giovane abbia desiderio di vendicare i propri familiari schiacciati da Tiberio e se abbia ambizioni di potere.

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Svetonio, però, è convinto che Caligola non finisca nel tranello dell’Imperatore: “Caligola non cade in queste trappole e mostra di dimenticare gli affronti subiti dalla madre e dai fratelli, come se non avesse mai avuto madre e fratelli, o come se a loro non fosse capitato nulla di sgradevole. Mostra anche una tale sottomissione a Tiberio e alla sua corte da poter dire di lui: non vi fu miglior schiavo, né più malvagio padrone”.

Anche in questi anni volutamente oscuri, però, il giovane Caligola non riesce a nascondere le inclinazioni strane del carattere. Si diverte ad assistere alle esecuzioni di condannati a morte; gira di notte avvolto in un grande mantello, col capo nascosto da una parrucca; seduce senza tregua le signore di corte. Tiberio sorride di questi futili peccatucci di gioventù, sperando che servano ad ammorbidire una personalità talvolta gelida e quasi disumana.

A dimostrazione del proprio benvolere, Tiberio gli dà in sposa Giulia, nipote di Silano, personaggio nobile e ben voluto dall’aristocrazia, ma purtroppo lei muore nel dare alla luce il figlio. Da allora Caligola diventa l’amante della moglie di Macrone: l’alleanza del potente Prefetto gli fa comodo, così come quella della nonna Antonia, che traffica in suo favore col Senato.

Appena Imperatore, Caligola si sente il padrone del mondo: “che mi odino, purché mi temano”, è il motto che lascia correre fra il popolo. Il popolo, però, lo ama: rivive in lui il mito, mai dimenticato, di Germanico, e questo mito per qualche tempo arriva addirittura a consolidarsi nella figura di Caligola, sostenuto a tal punto dalla gente che, come racconta Svetonio, quando si ammala una gran folla si raduna sotto il Palatino per fargli gli auguri di pronta guarigione, dichiarandosi disposta persino a fare sacrifici agli dei per la sua salute.

Ai confini dell’Impero, i sentimenti sono gli stessi. I legionari sono assai felici di avere “uno di loro” come comandante: la nobiltà di cuore di Germanico aveva conquistato anche i nemici, perché mai il figlio non dovrebbe somigliargli? Caligola, poi, fa di tutto per nobilitare il ricordo dei familiari: non solo si reca a Ventotene per rendere onore alle ceneri della madre, ma arriva addirittura a cambiare nome al mese di settembre, chiama Germanicus.

SOLDI E FESTE

Caligola, però, non è da solo al potere: lo divide, per disposizione testamentaria, con il cuginetto Tiberio Gemello. Il ragazzino non ha però l’età per poter accedere alle cariche politiche: resta nell’ombra, tanto che ben presto nessuno ne saprà più nulla.

Chi invece acquista importanza è la vecchia Antonia. Caligola dà infatti alla nonna il titolo di Augusta, sino ad allora concesso solo a Livia, moglie di Ottaviano. In realtà, l’Imperatore concede onore a tutti i propri familiari, ordinando che tutti i rapporti dei Consoli e tutte le preghiere dei sacerdoti debbano cominciare con le parole “Non sarò più devoto a me stesso e ai miei bambini, di quanto debba esserlo a Caio Cesare e alle sue sorelle”.

Le sorelle di Caligola sono tre, e con loro l’Imperatore tesse rapporti ambigui, tanto che le malelingue iniziano a sussurrare che egli sia persino innamorato di una di loro, Drusilla.

La scomparsa del cugino Tiberio Gemello accresce immensamente la sua ricchezza: Tiberio aveva lasciato ad entrambi 175 milioni di denari, un capitale enorme. I soldi non durano tanto, poiché le monete gli corrono veloci fra le dita. La popolarità fra le truppe, ad esempio, non è legata solo ai privilegi che l’Imperatore concede, ma anche e soprattutto alla generosità della sua borsa. Un esempio assai celebre racconta bene questa peculiarità. Quando Caligola visita per la prima volta le Coorti Pretorie, trova i reparti che stanno addestrandosi, e subito ordina di distribuire 250 denari per ogni uomo. La somma già meraviglia, ma Caligola sbalordisce: ricordando un legato di Tiberio, aggiunge subito altri 250 denari alla prima elargizione. Ogni legionario fuori d’Italia festeggia la morte di Tiberio con 75 denari, mentre 125 denari toccano ai militi delle Coorti Urbane. Distribuendo gli undici milioni di eredità lasciata al popolo romano dal signore di Capri, Caio Cesare aggiunge 60 denari di tasca propria, giustificandoli dicendo: “Dovevo farlo quando ricevetti la toga virile”.

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La simpatia del popolo aumenta anche perché il nuovo Imperatore cancella con feste, rappresentazioni teatrali e giochi di corte gli anni austeri di Tiberio, che odiava i musici e non tollerava pubbliche frivolezze. Cambia lo stile, insomma, e ai Romani questa linea morbida fatta di intrattenimento e spettacoli piace moltissimo. Dopo due consolati consecutivi, inaugura il terzo a Lione, distribuendo denaro al popolo, e organizzando una grande festa. Sempre così: feste, giochi, distribuzione di denaro, atti di magnanimità.

Anche la burocrazia e la politica estera traggono beneficio da questi primi anni di potere. Caligola riprende le pubblicazioni delle statistiche imperiali, sospese dopo la scomparsa di Augusto; indennizza le persone danneggiate dagli incendi e da altre calamità; restituisce i troni ai sovrani dei popoli confinanti con l’Impero, e fa loro riavere i tesori confiscati da Tiberio (re Antioco di Siria torna in possesso di cento milioni di sesterzi); apre una scuola di eloquenza greca e latina a Lione; fa restaurare il tempio di Apollo Didimo a Milo. Arriva addirittura a ragionare sulla possibilità di tagliare l’istmo di Corinto, mandando un folto manipolo di ingegneri a progettare un’impresa titanica, che però troverà il suo completamente (con tutt’altra tecnologia) solo nel 1893.

IL LATO OSCURO DI CALIGOLA

Il periodo dell’idillio, però, dura solo pochi mesi.

Sulla base del resoconto redatto dal filosofo e storico ebreo Filone, contemporaneo di Caligola, il 1 ottobre del 37 d.C. il giovanissimo imperatore cade gravemente malato: questa malattia gli sconvolge la mente, trasformandolo probabilmente in quel demone furioso che la tradizione ci ha riportato.

Considerato che la sezione degli Annales di Tacito riguardante Caligola è andata quasi completamente perduta, il principale riferimento storico per la vita di questo Imperatore resta Svetonio, il quale arriva persino ad insinuare che fu un filtro magico, forse proveniente da quell’Oriente che Caio Cesare tanto ama, a sconvolgergli la mente.

La verità potrebbe essere molteplice. Da un lato una malattia che gli abbia in qualche modo corrotto la mente, dall’altro l’esplosione interiore di quegli incubi della fanciullezza e dell’adolescenza che gli turbano la psiche. Il giovane Princeps inizia a dare sfogo alle sue allucinanti fantasie. “Non contento d’aver preso infiniti soprannomi (il pietoso, il figlio dei campi, il padre delle legioni, il migliore e il più grande dei Cesari), un giorno che sì trova a Roma a colloquio con dei sovrani venuti per rendergli omaggio, sentendoli discutere sulla nobiltà delle loro origini, esclama UNO SOLO SIA IL SOVRANO, UNO SOLO SIA IL RE”.

Svetonio, che lo definisce un mostro, evidenzia come la colpa di questi eccessi sia anche dei cortigiani che gli danno corda. Gli spiegano che lui è di gran lunga al di sopra dei re e dei principi, perché le sue origini sono divine, e subito Caligola manda a prendere in Grecia statue di Giove e degli altri dei, facendo tagliare loro la testa per rimpiazzarla con la propria. Fa prolungare sino al Foro Romano un’ala del Palatino e, trasformando in vestibolo il tempio di Castore e Polluce, si offre all’adorazione dei visitatori. Fa persino costruire un tempio dedicato alla propria persona: nel mezzo del tempio c’è una statua d’oro che lo raffigura, alla quale i sacerdoti consacrati al suo culto cambiano ogni giorno gli abiti, sacrificando una marea di animali esotici.

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Un dio, però, deve avere antenati illustri, e quindi Caligola fa diffondere la notizia che sua madre sarebbe figlia di un incesto commesso da Augusto con la figlia Giulia. La nonna Antonia, che tanto bene aveva intrigato per la sua elezione, non è nemmeno più ricevuta a corte: si dice che proprio un rifiuto d’udienza le provochi un collasso e la conseguente morte, senza che Caligola, informato della notizia, faccia una piega durante il pranzo.

L’intera famiglia viene decimata. Finisce sul patibolo, dopo un frettoloso verdetto di un tribunale militare, il cugino Tiberio. Il vecchio suocero Silano viene costretto a tagliarsi la gola dopo che, soffrendo il mal di mare, aveva rifiutato di accompagnarlo in un giro in barca. Il rapporto con le sorelle, in particolare Drusilla, continua torbidamente sotto gli occhi di tutti: viene data in sposa a Lepido, ma è l’Imperatore che convive con lei, in un chiaro rapporto incestuoso, tanto che quando lei muore Caligola proclama il lutto nazionale, punendo con la pena di morte chiunque sia visto ridere durante il lutto. Il dolore dell’imperatore è grande: Caligola fugge piangendo nella notte verso Napoli, desideroso solo di imbarcarsi per Siracusa ed allontanarsi dallo strazio, ma poi sceglie di tornare indietro, non rasato e con gli occhi cupi e sconvolti. Le dedica un tempio e la divinizza, ma quasi subito Drusilla svanisce dalla sua mente, tanto che Caligola si sposa e divorzia, in un unico anno, ben tre volte.

LE FOLLIE DI CALIGOLA

Il rapporto con i senatori è al limite dell’imbarazzante. Li maltratta, obbligando i vecchi notabili a correre dietro al suo carro o a restare in ginocchio mentre lui mangia. Chi disobbedisce, sparisce per mano dei sicari, in una situazione talmente grottesca da apparire paradossale: Caligola infatti finge di non accorgersi degli scranni vuoti, chiama per nome i senatori mancanti e si rivolge a loro come se fossero presenti. Dopo un paio di giorni, come se nulla fosse, ne annuncia il suicidio.

A detta di Svetonio, basta uno sguardo storto per cadere in disgrazia, e si finisce in prigione per niente: una volta Caligola ordina che tutti i prigionieri, qualsiasi crimine abbiano commesso, siano dati in pasto agli animali che fa arrivare per i giochi. Un cavaliere, gettato fra animali feroci, grida la propria innocenza, e Caligola dà sfogo a tutte le sue nefandezze: lo fa trarre in salvo, ma solo per fargli tagliare la lingua e poi rimandarlo sulla sabbia dell’arena.

Le esagerazioni imperiali sono ormai all’ordine del giorno. Per far cadere in ridicolo le previsioni di un astrologo che aveva annunciato a Tiberio “Caio ha tante possibilità di diventare imperatore, come ne ha di attraversare a cavallo la baia di Pozzuoli”, Caligola costruisce un pontile lungo cinque chilometri, sul quale si mette a cavalcare come se si trovasse sulla Via Appia, mentre la gente si affolla attorno a lui sulle barche, applaudendo. Per tre giorni, l’Imperatore sembra divertito e soddisfatto; poi, d’improvviso, al quarto giorno, Caligola si stanca, fa gettare tutti in acqua e ordina di uccidere coloro che tentano di riguadagnare la terra.

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Dilapidate le riserve accantonate da Tiberio, si trova con le casse vuote, e subito disdegna la politica economica del predecessore che sosteneva una circolazione limitata per rendere più preziosa la moneta. Conia denari in quantità superiore di sette o otto volte alle emissioni di Tiberio, che pur aveva regnato a lungo. La febbre di disporre del liquido lo spinge a inutili crudeltà: cadono in disgrazia famiglie ricche a cui confisca tutto, facendone vendere gli oggetti all’asta e intascandone il ricavato.

Moltiplica le tasse, appesantendo quelle esistenti ed inventandone di nuove: facchini e prostitute, per esempio, devono dividere con lo Stato i loro guadagni.

La sua grande forza sono i militari e, per tenere saldo in loro il simbolo della potenza, sostiene d’essersi procurato la corazza di Alessandro Magno, indossandola con frequenza in pubblico, atteggiandosi con la testa un po’ inclinata, per rifarsi all’iconografia tradizionale del conquistatore macedone.

Ovunque sorgono statue in suo onore, che finiscono nei templi dove Caligola è venerato come un dio. Tutti i popoli sottomessi si piegano all’ordine, eccezion fatta per gli Ebrei, che rifiutano di adorare l’imperatore e di ospitare la sua immagine nelle loro chiese. Caligola va su tutte le furie e fa erigere una statua a Gerusalemme, obbligando il legato di Siria a mobilitare due legioni per imporre in Giudea il rispetto alla sua effigie.

Caligola è geloso della propria discendenza divina, ma preferisce farsela con la plebe che coi nobili di cui non si fida. Ama ripetere “II mio unico grande amico è un cavallo”: si tratta di Incitatus, a cui Caligola regala mangiatoie d’avorio ed un intero palazzo dotato di servitù, probabilmente arrivando persino a cercare di nominarlo senatore, in quella che è la più celebre leggenda connesso all’ormai squilibrato Princeps.

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LA MORTE DI CALIGOLA

Il 24 gennaio del 41 d.C. è l’ultimo giorno della sua breve e tumultuosa vita. L’imperatore di solito va in Senato circondato dalle guardie del corpo e si siede su una poltrona posta molto in alto, in modo da essere difficile da raggiungere. Le guardie stringono attorno a lui una cortina di lance anche quando si gode gli spettacoli del circo, ma talvolta le precauzioni non bastano.

Ecco il racconto di Svetonio: “Il nono giorno prima delle calende di febbraio, verso la settima ora, Caligola è invitato a lasciare il posto dal quale assiste agli spettacoli palatini, per recarsi a tavola, nonostante sia ancora appesantito dal pranzo precedente. Sono le esortazioni degli amici a farlo uscire. Lungo un corridoio che deve attraversare, si preparano in fila dei fanciulli di nobile origine, che sono stati fatti venire dall’Asia per esibirsi sulle scene. Si ferma a guardarli e a incoraggiarli. Su ciò che accade poi ci sono due versioni. Secondo alcuni mentre si intrattiene coi fanciulli, Cherea lo ferisce gravemente al collo e alle spalle con la lama del suo pugnale, pronunciando una parola d’ordine. Al che il tribuno Cornelio Sabino, secondo congiurato, gli trapassa il petto. Altri raccontano che Sabino, facendo tenere lontana la folla da centurioni a conoscenza del complotto gli domanda la parola d’ordine. “Giove”, risponde Caligola, e allora Cherea grida: “Che tu sia sgozzato!”. Poi, appena l’imperatore si volge, gli fracassa il cranio. Crollato a terra, raggomitolato, Caio comincia a gridare senza interruzione d’essere ancora vivo, ma altri congiurati gli sono addosso con i pugnali. Trenta colpi piovono su di lui. Gli uomini si danno l’un l’altro la cadenza gridando: “Ancora”. Appena si sparge la voce dell’attentato, accorrono in aiuto i portatori della lettiga imperiale, armati di bastoni, e i Germani della guardia del corpo che uccidono gli assassini e perfino certi senatori, totalmente estranei al crimine. Nessuno vuol credere all’assassinio: si pensa che Caio faccia circolare la notizia per sondare a sentimenti del popolo”.

Muore così, in un bagno di sangue, l’Imperatore Caligola.

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IL COMMENTO FINALE

I crimini, le bizzarrie e le crudeltà che gli storiografi attribuiscono a Caligola corrispondono interamente a verità?

Oggi gli storici sono portati a ridimensionare, almeno in parte, le stravaganze di Caligola, che sarebbero state tendenziosamente esagerate dagli scrittori e dai cronisti del tempo, legati a quel Senato che l’Imperatore aveva più volte sferzato con violenza, privandolo della propria autorità.

Caligola fu certamente spietato e psichicamente debole, ma non dobbiamo credere che i provvedimenti attribuiti alla sua bizzarria nascano per caso. La Roma in cui Caligola si trovò a dominare, al posto di un ormai anziano Tiberio, era una città corrotta, pronta ad ogni crimine e contrassegnata da lotte politiche.

Mettendo da parte, seppur con difficoltà, gli orribili intrighi e le tremende nefandezze, Caligola si dimostra anche un buon amministratore ed un valente diplomatico: la restaurazione dei regni cancellati da Tiberio ed il rimettere sul trono i sovrani spodestati gli valgono una cortina di popoli amici, che alleggeriscono la pressione ai confini. Vuol trasformare la parte orientale del dominio romano in una federazione di stati indipendenti, ma protetti: non a caso, Caligola viene assassinato alla vigilia di una spedizione contro i Parti.

Perché Caligola viene assassinato? Se, ovviamente, gran parte dei motivi sono connessi alle nefandezze compiute durante l’Impero ed al suo considerarsi dominus et deus (avverrà lo stesso per il suo successore Domiziano), bisogna dare una piccola percentuale anche all’evidente camapnilismo imperiale. Caligola aveva infatti fatto balenare la possibilità di trasferirsi ad Alessandria d’Egitto, e la gelosia dei romani per gli orientali che egli adora (ristabilendo culti religiosi un tempo proibiti) si esaspera e probabilmente affretta le decisioni, rendendo inevitabile la congiura.

In un certo senso, Caligola non era poi tanto dissimile da Tiberio. Anch’egli, forse, voleva dimostrare di poter controllare e pilotare l’Impero anche da lontano, stando alle foci del Nilo.

Alessandria, per Caligola, è un po’ la sua Capri. Una Capri, purtroppo per lui, mai raggiunta.

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Un pensiero su “L’imperatore Caligola

  1. Alessandro Guasco dice:

    Articolo molto interessante e dettagliato su di un imperatore che a scuola trattano con poche righe sui libri di storia anche alle superiori.

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