L’imperatore Claudio

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L’IMPERATORE CLAUDIO

Secondo il filosofo Seneca, la notte fra il 12 e il 13 ottobre del 54 d.C. l’imperatore Claudio (che non era esattamente in buona salute, soffrendo fra l’altro di arteriosclerosi, di artrite e di debolezza cardiaca) non morì per una grave malattia viscerale, come avrebbe indicato la versione ufficiale, ma a causa di un piatto di funghi avvelenati preparatigli dalla moglie Agrippina o dall’eunuco Aloto.

Seneca, che non si limitò alla mera cronaca, aggiunse che ciò avvenne per un capriccio di una delle Parche, Cloto, che evidentemente aveva stabilito di uccidere in quei giorni tre uomini che i Romani consideravano tre imbecilli patentati: un vero e proprio ABC dell’idiozia dell’Urbe, considerato i nomi dei primi due Carneadi, ossia Augurino e Baba, ed il nome del terzo, ossia per l’appunto l’imperatore Claudio Tiberio Cesare Germanico.

Seneca, però, evidentemente non soddisfatto dalla propria narrazione, decise di aggiungere alcune parti della storia decisamente colorite. Al comando della Parca che gli intimava di morire, Claudio avrebbe farfugliato “Ahimé, temo di essermela fatta addosso…”, prima di presentarsi alle porte dei Campi Elisi, con il portinaio degli stessi che disse a Giove “C’è qui un tale che scuote la testa in continuazione, strascina il piede destro e pasticcia con la lingua”.

In realtà quello stesso Seneca che tesse con parole così impietose la cronaca beffarda di Claudio defunto, ricordandone indecorosamente la zoppia e la balbuzie, quando l’Imperatore era vivo avevo intessuto lodi di ben altro tono: “Ogni qualvolta nei tuoi occhi spuntano le lacrime, volgili tosto verso l’imperatore e si asciugheranno alla vista del grandissimo e splendido suo nume. Il fulgore di lui li abbaglierà talmente che non altro potranno guardare, e li terrà attratti su di sé. Che possa rimanere a lungo in prestito agli uomini, che tardi spunti il giorno in cui sarà rivendicato dal Cielo”.

D’altronde, l’elogio dei potenti in vita si affianca spesso alla denigrazione degli stessi dopo la morte: con le parole di Seneca si concluse quindi l’amaro destino di Claudio, segnato dagli dèi nel corpo e nello spirito, oggetto fin troppo facile da vituperare.

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L’ELEZIONE DI CLAUDIO

Già la sua elezione a Princeps, d’altronde, aveva fornito un bell’argomento di riso agli aristocratici e alle matrone di Roma: sul trono che era stato del grande Ottaviano Augusto, quell’ometto alto e magro già più che cinquantenne (era nato il 10 a.C.), pieno di tutti i difetti fisici più vistosi, faceva quasi tenerezza. Era un topo di biblioteca erudito e scalcagnato, che si occupava della civiltà etrusca mentre Caligola faceva il bello ed il cattivo tempo a Roma con atteggiamento da despota: d’altronde, le dicerie del popolo romano raccontarono che, quando l’ormai indigesto Caligola venne assassinato nel gennaio del 41 d.C., un soldato avrebbe trovato il povero professorino accucciato tremebondo dietro una tenda, lo avrebbe trascinato fuori per la camicia e lo avrebbe, per puro spasso, proclamato signore di Roma.

La verità è che su quella persona sgraziata si davano battaglia i due grandi poteri di Roma: il Senato e i Pretoriani. Il Senato sognava, come sempre a ogni successione, un ritorno alle tradizioni sacre della libertà repubblicana, in cui naturalmente ci sarebbe stato posto anche per l’effettivo predominio delle grandi famiglie; i Pretoriani, dal canto loro, volevano un Imperatore che garantisse il loro prestigio e la loro stessa esistenza. Quanto al popolino, correva dietro a quella bandiera, tumultuando spesso a favore e spesso contro il personaggio del momento.

Nel consueto spettacolo poco edificante di ogni successione, il solo Claudio tenne un atteggiamento decoroso: nel rendersi conto che le casse statali erano state svuotate da Caligola, si fece coraggio quale ultimo rampollo della gens Giulio-Claudia ed accettò di venire eletto imperatore il 24 gennaio del 41 d.C.

L’INFANZIA DI CLAUDIO

La sua era stata una infanzia umiliata e infelice, e Claudio portò con sé sul trono tutti i propri traumi. In un mondo in cui si guardava ai membri della famiglia imperiale solo in base alle grandi virtù e alle prestanti doti fisiche, il piccolo Claudio era nato con corpo debole e spirito pensoso. Persino la sua famiglia si vergognava di lui: Svetonio racconta che quando venne il giorno di fargli indossare la toga virile, ossia il giorno più bello nella vita di un ragazzo, “fu portato in Campidoglio in lettiga, di notte, senza nessuna cerimonia solenne”. Facevano a gara, in casa, nell’umiliarlo: sua madre Antonia, che pure era donna di grandi doti, lo chiamava apertamente “una caricatura di uomo”, adoperandolo come termine di paragone per valutare l’idiozia dei propri interlocutori. Solo Augusto, che pure diede ordine di non farlo sedere ai primi posti durante gli spettacoli per non far deridere indirettamente la famiglia imperiale, affermò: Povero ragazzo, nelle cose serie, quando il suo animo non è smarrito, mostra ingegno non volgare.

Allo “scemo di famiglia” non restò che dedicarsi agli studi, all’erudizione minuta sui suoi cari Etruschi o sull’antica civiltà di Roma, che essendo ormai morti e sepolti non avevano la possibilità di farsi beffe di lui. Dalla solitudine in cui il Palazzo lo teneva, a Claudio piaceva uscire e mescolarsi col popolo, che forse gli voleva anche bene ma certo non lo stimava, definendolo un giocatore e un ubriacone.

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Nelle alte e basse sfere della società si faceva a gara nell’inventare aneddoti che arricchivano la sua leggenda comica, dopo quella sanguinaria di Caligola. Le pagine di Svetonio pullulano di tali aneddoti. Il nuovo Cesare, si raccontava, venne trattato dai suoi stessi familiari come un buffone per quasi cinquant’anni: quando arrivava in ritardo al pranzo, gli facevano fare il giro della stanza prima di lasciarlo sedere, mentre dopo cena si addormentava regolarmente, ed allora gli infilavano le mani nei calzari perché svegliandosi se le sfregasse sugli occhi. Secondo altri resoconti, i suoi stessi familiari gli sputavano in faccia i noccioli dei datteri e delle olive.

Poteva forse anche esserci qualcosa di vero in quelle storielle, e forse Claudio era davvero il topo di biblioteca uscito male da un’infanzia in cui nessuno gli aveva sorriso. Coloro che però avevano sperato di veder salire sul trono di Roma un bamboccio facilmente manipolabile furono presto delusi: come molti studiosi seri, Claudio era pronto a diventare un serio uomo di potere.

PREGI E DIFETTI DI CLAUDIO

Claudio era certamente di sentimenti repubblicani: accettava in tal senso la propria onnipotenza rendendosi conto delle condizioni reali della Roma dei suoi tempi, ma rifiutava la monarchia di tipo orientale prediletta da Caligola, affermando che “gli onori divini erano dovuti ai soli dei”. Claudio voleva governare come un Imperatore, ma pretendeva di esserlo con dignità e moderazione. Alla folle amministrazione di Caligola fece sostituire una rigorosa economia: riorganizzò il fisco, si entusiasmò per la costruzione di un nuovo porto a Ostia, progettò il prosciugamento del lago Fucino.

Come tutti gli esseri umani, ovviamente, anche Claudio aveva le sue debolezze: intanto era un uomo di studi totalmente inabile alle armi ed alle imprese militari, e poi sentì immediatamente il bisogno di ingraziarsi la classe aristocratica, che al disprezzo aggiungeva ormai l’odio perché Claudio aveva non solo punito severamente i congiurati contro Caligola, ma aveva anche scelto come collaboratori dei semplici e capaci liberti, come Pallante e Narciso, Arpocrate.

Il problema più esplosivo, però, fu la scelta delle sue compagne di vita, ed in particolare la sua prima moglie: Messalina.

Come si addice spesso a un adolescente infelice, Claudio era stato infelice anche nei suoi amori. Le comparse femminili si successero una dietro l’altra nella sua vita di studioso solitario (e, a detta di Svetonio, anche un po’ libidinoso): Emilia Lepida, ripudiata per ordine della sua famiglia, Livia Medullina, morta giovanissima, Plonzia Urgulanilla, Elia Petina, fino ad arrivare all’assai più celebre Messalina, tanto bella quanto dissoluta, tanto da divenire la perfetta compagna subdola ed approfittatrice di un marito stolto.

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LA CONGIURA E LA GUERRA

Nel 42 d.C. avvenne la tradizionale congiura di rito, un anno e mezzo dopo l’elezione di Claudio. L’aristocrazia romana tramava e congiurava da sempre contro l’Imperatore, fra ambizioni deluse e rancori personali. A capo della congiura c’era il senatore Anicio Viciniano, che aveva sperato di succedere a Caligola: la congiura però fallì, e Claudio si fece di colpo più diffidente e crudele.

Fu come se, nella mente dell’anziano imperatore, fosse scattato un interruttore. Per liberarsi dalla fama di intellettuale incapace che continuava a pedinarlo, Claudio decise di fare la guerra, proprio lui che non era mai stato soldato. La cosa incredibile è che non volle dichiarare una guerra qualsiasi, ma volle andare laddove anche il divino Giulio Cesare aveva fallito, ossia recandosi in Britannia con quarantamila uomini, in una sorta di infantile bisogno di rivincita tramite l’affermazione di sé.

Claudio, però, vide la gloria militare come un trionfo isolato: si trattava di gioie effimere, per un individuo che nel suo intimo restava un uomo di giustizia. Glielo riconosce, in fondo, anche Svetonio, affermando che “amministrò con estrema cura la giustizia”. Claudio aveva in effetti una visione assai moderna della società, a cui affiancava una buona conoscenza del diritto: egli mirava a instaurare una società più equa nella quale la donna fosse affrancata dalla arbitraria tutela del maschio, i minorenni fossero difesi dai soprusi degli interessi familiari, gli schiavi fossero tutelati dalla crudeltà del padrone. Secondo molti critici, in tali atteggiamenti si riflettevano i ricordi di un’infanzia ed un’adolescenza travagliata ed umiliante: Claudio si rivedeva probabilmente nei poveri, nelle donne, nei ragazzi bistrattati.

LO SCHERNO E L’IRONIA

Anche di questo, come di ogni altro suo atto, si tenne conto quando si cominciò a ridicolizzarne l’immagine per i posteri. Siccome assisteva quando gli era possibile ai processi, non fidandosi (probabilmente a ragione) dell’equità dei giudici, gli si attribuirono interventi stupidi. Una volta avrebbe detto, dopo aver ascoltato accusa e difesa: “lo sono d’accordo con chi ha ragione”.

Svetonio, che probabilmente lo maltratta fin troppo, sentenzia che Claudio “visse più da servo che da imperatore”, quasi che questo Princeps dal volto umano dissacrasse la storia stessa con il proprio atteggiamento. Oggi, in realtà, la frase dello storico romano sembra poter essere letta con tutt’altra interpretazione, decisamente più benevola, quasi che Claudio assomigliasse ad una sorta di vecchio e saggio nonno pieno di una delicatezza inconcepibile nella sfilza degli Imperatori.

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Si pensi, in tal senso, alla frase pronunciata dallo stesso Claudio ad un giovane ragazzo processato per dissolutezza: “Abbi un po’ più di misura, o almeno maggior cautela”. In ogni sua dichiarazione sembra potersi leggere il ricordo della sua giovinezza, resa amara e difficile dai suoi stessi familiari, di cui Claudio non riuscì a disfarsi neppure salendo al trono; e poiché le parole nate da quei ricordi erano necessariamente lontane dalla solennità di Augusto o dalla tragicità di Tiberio, ecco gli storici di parte aristocratica farle uscire dalla bocca di un vecchio pazzo.

La grande malinconia di Claudio si manifestò anche nei confronti del Senato, che era certamente l’interlocutore più complicato per gli Imperatori romani. Claudio si ostinava a rispettare il Senato, sapendo di non essere rispettato: avrebbe voluto che i Senatori fossero consci della dignità dell’istituzione, ed in realtà non si ritrovava attorno che nemici subdoli o adulatori. La conclusione di un suo discorso in Senato merita di essere riportata per intero perché è la condanna della bassezza umana serpeggiante fra le schiere dei senatori: “Se queste proposte vi paiono da approvarsi, o Senatori, ditelo subito semplicemente e secondo le vostre convinzioni. Se invece le disapprovate, trovate allora altri rimedi, ma qui seduta stante, o anche, se volete prender tempo per meditare, prendetelo pure, purché vi ricordiate di dare il vostro parere quando ne sarete richiesti. Non è infatti, o Senatori, conveniente alla dignità di questa assemblea che il console designato esprima un’opinione e gli altri rispondano con una sola parola, “approvo”, e poi, dopo aver lasciato l’assemblea, si vantino dicendo di aver parlato”.

Come già accennato in altri precedenti articoli, è evidente che ormai l’istituzione senatoriale soffrisse a Roma di una contraddizione interna all’istituzione stessa: da un lato non si rassegnava ad abdicare al suo compito di supremo organo dello Stato, in un contesto politico dominato dalla presenza ingombrante dell’Imperatore, ma dall’altro rifiutava la parte più modesta ma preziosa che Claudio avrebbe sinceramente voluto affidargli, come il Senato a mo’ di collaboratore e consigliere del potere imperiale.

Nessuna meraviglia, in tal senso, che Claudio abbia fallito laddove avevano in precedenza fallito Augusto e Tiberio. Claudio, uomo probabilmente assai più profondo di quanto le cronache abbiano tramandato, ma in ogni caso sgraziato ed imbelle agli occhi dei propri contemporanei, visse questa impasse storica con grande intensità. Il popolo romano, d’altronde, era instabile per natura e per tradizione: qua e là, fra le taverne e le strade, si cominciavano ad applaudire Britannico, figlio di Messalina, e Lucio Domizio Nerone, figlio di Agrippina, presunti successori al trono.

IL DIVORZIO ED IL NUOVO MATRIMONIO

Le persone attorno a Claudio insinuarono che lo scontento del popolo fosse attizzato dalla presenza scandalosa di Messalina, e nel 48 d.C. lo persuasero a divorziare. Si rivide in ciò la tradzione della gens Giulio-Claudia, in cui le donne di corte erano sempre e comunque fautrici di intrighi o vittime degli stessi.

Messalina, resa libera dal divorzio, sposò il suo vero grande amore Caio Silio, senatore di nobile famiglia. Per lei si trattava di amore, per lui era mero calcolo: fu proprio Caio Silio, infatti, a ordire una seconda congiura contro Claudio, in cui entrarono a far parte personaggi di un certo rilievo. Fu il fedele Narciso a scoprire la congiura, inducendo Claudio ad incarcerare tutti i congiurati e a condannarli a morte. Tutti tranne Messalina che, con innato gusto teatrale, decise di presentarsi all’ex marito in veste di supplice, cercando di sfruttare la mitezza e la libidine di Claudio.

Attorno a lei, però, era ormai solo solitudine. In tutta Roma non si trovò una carrozza per Messalina, tanto che secondo le malelingue la donna fu costretta a presentarsi al cospetto dell’Imperatore trasportata su un carro per le immondizie. Temendo la commozione del proprio padrone, Narciso la fece assassinare da un tribuno del Pretorio, e Svetonio naturalmente ne approfittò per svilire di nuovo Claudio che, seduto a tavola in attesa di Messalina, si sarebbe limitato a chiedere “Come mai l’imperatrice non viene?”.

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Claudio probabilmente non avrebbe più voluto un’altra moglie, ma oramai doveva essere piuttosto rassegnato ai moniti dei consiglieri: si prese quindi Agrippina, anche lei bellissima e tendenzialmente ancor più intelligente di Messalina. Claudio, d’altronde, stava invecchiando rapidamente: soffriva di artrite e di arteriosclerosi, l’intestino ed il cuore lo facevano penare e la zoppia non gli dava tregua.

Tutte le sue parole degli ultimi tempi suonavano la corda consueta della malinconia, aggravata dall’esperienza e dagli anni. Alla fine della cerimonia con cui Britannico venne rivestito della toga virile, sospirò: “Perché, finalmente, il popolo romano abbia un vero Cesare. Io sono giunto al termine della mia vita mortale”.

LA MORTE DI CLAUDIO

L’Imperatore Claudio morì fra il 12 e il 13 ottobre del 54 d.C., a sessantaquattro anni, ufficialmente in seguito a un grave disturbo viscerale (sebbene poi le cronache, come accennato, abbiano parlato di ben altra causa).

Tutti ridevano di quel morto che si apprestava a diventare un dio. Sappiamo già dalla testimonianza del filosofo Seneca, secondo cui neppure il consesso degli Dei Celesti aveva voluto prender sul serio lo storpio balbuziente. Sempre secondo Seneca, Claudio, cacciato dall’Olimpo e destinato agli Inferi, passando per la Terra assistette al proprio funerale, guardando un via vai di gente allegra ed un sospirar di sollievo da parte di tutti i presenti. Secondo Seneca, fu solo in quel momento che Claudio si rese conto di essere morto: si mise ad ascoltare le lodi sperticate dei suoi detrattori, senza rendersi conto dell’ironia sarcastica di quelle parole, finché il suo accompagnatore Mercurio non lo prese per un braccio, trascinandolo nell’Oltretomba.

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Negli Inferi, l’oscena schiera dei molteplici amanti di Messalina, fatti trucidare dal marito geloso, gli si fece incontro, trascinandolo davanti al tribunale infernale e proclamando: “Costui ha fatto ammazzare 35 senatori, 221 cavalieri romani, senza tener conto dei plebei”. Eaco, il giudice dell’Oltretomba, zittì subito Claudio, sentenziando senza indugio che lo spirito dell’Imperatore sarebbe stato condannato per tutta l’eternità a giocare ai dadi in un bussolotto senza fondo, con il povero Imperatore zoppo costretto a correre con le sue povere gambe dietro i dadi che gli sfuggono a ogni mossa.

Nel mondo dei mortali, intanto, il carrozzone dello spettacolo imperiale si rimise in moto. Il giovane Nerone tesse ammiccando l’elogio funebre del divo Claudio, scritto parola per parola dal già citato Seneca: tutto il popolo, intanto, si scompisciava dal gran ridere nel sentire il filosofo discettare della previdenza e della saggezza dell’imbecille defunto.

La testimonianza di Tacito, però, assume d’improvviso grande rilevanza: a detta del grande storico, infatti, a ridere più di ogni altro era lo stesso Nerone, convinto (come gran parte dei Romani) che la morte di Claudio fosse da attribuirsi a certi funghi propinatigli opportunamente da sua madre Agrippina.

Da quel 13 ottobre, gli si aprirono le porte dell’Impero, e Nerone non mancò mai di chiamare i funghi “il cibo degli dei.

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